Ricordo che all’ora di pranzo nei sonnolenti venerdì di fine Anni 70, mi piazzavo davanti al televisiore, rigorosamente in bianco nero, per godermi “Oggi disegni animati”, trasmissione cult della Rai che trasmetteva cartoni tra i più disparati. Si trattava di un contenitore che talvolta proponeva meravigliosi corti di animazione dell’Est, tanto criptici quanto meravigliosi, a partire dal sublime “Gustavo”, il Fantozzi magiaro sul quale tornerò un giorno o l’altro.
In uno di questi piccoli capolavori, probabilmente prodotto dalla “Pannónia Filmstúdió”, la sezione dedicata all’animazione della Hungarian Film Production Company, si vedeva un esercito in parata, al ritmo di un rullare di tamburi. A un certo punto però, uno dei soldatini si metteva a zoppicare, rovinando la marziale simmetria della marcia. Il generale, per rispetto della scenografia, e per non escludere il “diverso”, decideva di mettergli una scarpa con un tacco più altro. Niente da fare; il tacco si rompeva e tutto ricominciava da capo.
Finché la soluzione arrivava, etica e realmente socialista: tutti gli altri soldati venivano fatti zoppicare e in un grottesco e asimmetrico incedere veniva garantita l’uniformità del singolo e anche dell’intero sistema.
Il motivo per cui questo ricordo mi assilli dal 1978 non lo so e non lo immagino ma, prima o poi, tutto torna utile. Come quando mi sono imbattuto nel cortometraggio ungherese “Sing” (2016) di Kristof Deák, vincitore del premio Oscar 2017 dalla morale sorprendentemente analoga.
Contiene spoiler.
La vicenda è ambientata in un collegio di Budapest dove una ragazzina entra a far parte di un coro che di lì a poco dovrà partecipare a un importante concorso nazionale. Peccato che all’interno del gruppo i meno bravi vengano obbligati dalla bella e perfida insegnante a mimare la canzone con il labiale, per non abbassare il livello generale. Ma con commovente spirito di corpo della classe intera, al momento della prova davanti ai giudici, il coro resta unito nel silenzio con una delle più memorabili prove canore “mute” della storia del cinema. Solo quando la maestra lascerà sdegnata il palco i ragazzi si lanceranno all’unisono nel loro strepitoso canto di affrancamento.
Sul “silenzio” come potente forma espressiva molto è stato scritto e detto ma in questo caso è la forza degli opposti a risuonare come la nota perfetta. E come Andrei Tarkovsky in “Andrei Rublev” aveva prima rappresentato il dolore dei monaci attraverso le loro agghiaccianti urla silenziose, e poi la gioia mistica di una comunità attraverso il suono di una campana, anche Kristof Deák, con la medesima forma retorica, tocca il sublime con il suo piccolo, maestoso, allegorico corto da Oscar.