Fiatopoli la può capire solo chi l’ha vissuta dall’interno. Mamma o carnefice che sia, la più grande fabbrica Italiana del secolo scorso ha forgiato una città oltre che l’acciaio, e il “sistema” Torino=Fiat, ora storicizzato e annacquato, è stato per decenni l’unico modello di vita possibile nel capoluogo subalpino. Trevico-Torino (il titolo completo di Fiat Nam è contestato da Diego Novelli, sceneggiatore ed ex sindaco di “quella” Torino) ci parla di una città organizzata appositamente da e per il Padre Padrone: contraddizioni, spersonalizzazione, logiche di potere oggi in gran parte superate ma per l’epoca stilema assoluto di sfruttamento e lotta di classe.
Ettore Scola dirige un film anomalo e politico come non mai, una sorta di “Cosa” ante litteram che scarnifica le contraddizioni del mondo operaio tra utopie e idealismo, in contrapposizione ad una accettazione “responsabile” e riformista. Un tema che il regista romano affronterà splendidamente in forma di racconto classico in C’eravamo tanto amati” e che in “Trevico” abbozza con uno stile docu-fiction essenziale e con poche concessioni alla finzione. Una regia asciutta, concentrata nel pedinamento del protagonista dal suo arrivo in città fino al suo inserimento(?) attraverso la sua istruzione programmata: il tutto sullo sfondo di una fabbrica moloch e con la suddivisione in quadri-stazione che ne disegnano il percorso con fermo-immagine sonorizzati dai rumori della fabbrica.
La città stessa si fa scenografia, gli spazi architettonici diventano soggetto politico, testimonianza di sprechi, inutile sfarzo modernista e, in definitiva, prova vivente dello spregio del potere verso un popolo di sudditi da mungere. La monorotaia di Italia ’61 contrapposta ai cortili, alle camerate, alle mense per poveri ed emigranti non possono che far pensare ad un cortocircuito del sistema, che pure gli autori cercano di attutire attraverso i dialoghi di “crescita” tra l’operaio Fortunato (di nome e -ironicamente- di fatto) e la studentessa maoista, così intrisa e appesantita di iconografie fuori dal tempo, che tanti errori di valutazione storica avrebbero portato negli anni a venire.
Un film documento, molto torinese e dunque archetipico, che fa riflettere sull’oggi più di ogni altro testo; un documento interessante anche dal punto di vista storico, con le vedute di una città -forse è questo il suo limite- troppo cupa e per troppi anni “grigia” per antonomasia, per essere vera. Una Torino da ricordare per non tornare indietro, simboleggiata da una gigantografia che fa capolino da un’inquadratura del Valentino, con una massa di bambini che corrono verso il futuro sotto la scritta “arrivederci al 2011”: quei bambini siamo noi, il futuro è adesso, un bel modo per fare il punto sulla nostra storia.