“Zwillinge heraus!”, “Fuori i gemelli” soleva urlare il dottor Joseph Mengele tra le file di prigionieri ad Auschwitz e la sua ossessione per la ricerca su questa piuttosto comune ‘bizzarria’ della natura era proseguita anche durante la sua fuga in sud America. E con questa, aveva continuato ad alimentare i suoi interessi per la genetica e per ogni forma di sperimentazione che avesse come fine la selezione razziale e la formazione di un genere umano standardizzato e controllabile. Il superbo film di Lucia Puenzo parte proprio da una delle poche ricostruzioni attendibili che ci parlano di quest’uomo cupo ed enigmatico in fuga verso il sud del mondo, ma per nulla sconfitto dalla Storia. Mengele, ovviamente sotto falso nome, instaura un rapporto privilegiato con la famiglia che gestisce un hotel nella Patagonia più profonda, per continuare le sue ricerche su elementi ritenuti scientificamente interessanti, attorniato e idolatrato da fedelissimi nostalgici sopravvissuti al crollo del nazismo. Una storia apparentemente semplice, fatta di rapporti umani tra uomini comuni, padri, mogli e figli, che poggia però su una struttura narrativa solida e mai superficiale. La descrizione del collegio tedesco, santuario nazista fuori dal tempo, e le ambientazioni in una natura spettacolare che richiama le mitologiche raffigurazioni hitleriane nel suo nido dell’Aquila nel cuore delle Alpi, sono verosimili e potenti e la massonica corporazione che protegge uno dei pochi semidei del Quarto Reich sopravvissuti sono oggi storicamente certificati. Ma è soprattutto nella ricostruzione allegorica della ossessione dell’ex medico di Auschwitz verso la purezza razziale e per la perfezione dei corpi che si esplicita il percorso morale del film.
Si pensi alla similitudine tra le bambole prodotte in serie (la sequenza della cottura della porcellana rimanda antiteticamente ai fornì dei lager nazisti) e la clonazione ariana, cui Mengele mirava esplicitamente; o alla pierfettibilità dei corpi a costo di sopportare il dolore definito ‘buono’, e con una cultura edonistica istigata fin dalla giovane età anche nell’istituto germanico a migliaia di chilometri da una Patria ormai inesistente. Contrariamente a “I ragazzi che vengono dal Brasile” in cui il regista Shaffner aveva puntato ad una chiave tanta-thriller per raccontare la seconda vita del famigerato “angelo della morte”, “German doctor” della regista argentina figlia di quel Luis Puenzo che vinse un premio Oscar parlando proprio di dittatura con “La storia ufficiale”, ci racconta una storia privata e credibile, asciutta, senza sbavature e senza indulgere a facili trovate hollywoodiane. Il peso del film sta invece nella “banalità del male”, della sua ambigua fascinazione e della sua perversa, epidemica propensione a diffondersi.