“Sexxx” è molto più di un balletto filmato per il cinema. Le camere a mano si fanno danzatrici e ci proiettano direttamente sul palcoscenico, molto più che a teatro paradossalmente. L’operazione immaginata da Davide Ferrario di riprendere dal vivo il potente spettacolo di Matteo Levaggi, coreografo tra i più innovativi in Italia, era sicuramente a rischio. Quante volte i diversi linguaggi artistici sono stati oggetto di contaminazione disperdendo la forza di uno e dell’altro? Il cinema è arte sublime si sa, ma anche fagocitante e distruttiva di tutto ciò che cinema non è. Film sul teatro resi piatti, sull’opera barocchi, e polverosi sulla pittura, sono stati spesso la norma e infatti i registi più accorti, specie nell’ultimo decennio, si sono indirizzati sul documentario, genere tanto più moderno quanto domabile dalla parola e dalla didascalia. La magia di “Sexxx” invece aumenta il prodotto algebrico delle due arti catturando lo spettatore in un’ipnotica sessione di balletto, frenetica e coinvolgente fino a spossarlo -in senso buono intendiamoci- in poco più di un’ora di film.
Il lavoro di Ferrario è fondamentalmente un discorso sul corpo. Uno studio a tratti filosofico, sebbene senza alcun commento, che ha la capacità estremamente rara di farci riflettere soltanto con le immagini. E di “corpo” in questo film ce n’è davvero tanto e non solo per l’esibizione immaginata per il teatro da Levaggi, quanto per le continue inquadrature ravvicinate di pelle, pori, peli, sudore.
In principio i corpi vanno approntati, come la vestizione di un cavaliere viene da pensare. I ballerini si truccano, si depilano, si lisciano e, soprattutto, si insaccano in calze di nylon aderentissime che li ricoprono in un corpo che li trascende. I genitali diventano righe nere, per maschi e femmine, scarno segno di uniformità e di -altro paradosso- completa asessualità. Le righe angelicano la carne e rendono il titolo fuorviante e altro da sé, in una sorta di slittamento semantico che porta il discorso dalla carnalità alla pura spiritualità.
Poi i corpi entrano nel vivo e si dimenano, battono i piedi in danze propiziatorie, si colpiscono, si sfiorano e si sfiancano. La musica è parte attiva di questa frenesia che ci fa sudare con loro. Geniali alcune trovate, come la figura delle due ragazze bionde e ricce, praticamente cloni di Minnie Minoprio, che ci riportano alla Rai degli Anni ’70 con un balletto meccanico strepitoso. E spettacolari alcuni carrelli all’indietro che accompagnano in soggettiva i passi delle danzatrici fino a farci ballare insieme a loro. E dopo l’energia sprigionata come da una macchina portata allo sfinimento, ecco i segni della stanchezza e dello sfiorimento. L’algida estetica iniziale conferita dal tessuto impersonale e sintetico, si trasforma; degrada progressivamente in smagliature, sporcizia e impurità che spostano l’attenzione dall’idea di corpo al corpo stesso, macerato e imperfetto ma finalmente vivo. L’etica del movimento e della passione evolvono i freddi movimenti iniziali in puro sentimento e vigore fino al puro assoluto dove il corpo incontra la sua catarsi in una vera e propria, spirituale, essenza.
Ma Sexxx è anche vero cinema. Nel montaggio, fitto e dinamico; nella fotografia, tanto calda e appassionata durante la danza quanto asettica e digitale negli intermezzi “funzionali” che fanno pensare ma anche riposare lo sguardo. Perfino l’inserto della storia d’amore mai nata tra due ragazzi che si risvegliano in una anonima stanza d’albergo si trasforma in riflessione estetica sul vero oggetto del film (la danza) in contrapposizione alla fiction televisiva che il corto sintetizza e alla passione vera rispetto al freddo meccanicismo di certe fiction seriali. Le inquadrature ravvicinate catturate da set di film hard riprendono invece la monotonia e la standardizzazione del piacere, ridotto a mero automatismo culturale, ben lontano dall’energia spirituale sprigionata dal corpo di ballo protagonista. E anche grazie a questi accostamenti, il meta-teatro di Matteo Levaggi, tra microfoni trascinati come oggetti di scena sulle scarni tavole del palcoscenico e (s)vestizioni a scena aperta, si esalta in modo inaspettato legandosi a doppio filo con lo stile e la poetica di Davide Ferrario e dando vita a una “cosa” emozionante e nuova da vedere, rivedere, vivere, rivivere.