Sarebbe troppo facile definire l’ultimo film di Reygadas un sopravvalutato esempio di intellettualismo snob e pretenzioso. Complesso, criptico, troppo spesso compiaciuto ben oltre il livello di sopportazione di un pubblico pur abituato a farsi del male, certo. Ma “Post tenebras lux” offre anche notevoli spunti di riflessione e potenza visionaria di rara intensità ed è su questo che vale la pena soffermarsi. A partire dalle inquadrature di spazi naturali che meritano da sole l’appellativo di cinema puro, per profondità estatica e sospesa, figlie del miglior Malick. O alle sequenze dei sogni dei bambini, sempre presenti, spesso sofferenti nel cinema del regista messicano, in questo caso unici a sopravvivere spensierati in un mondo utopico e artificiale in cui i genitori cercano invano di risolvere i propri nodi esistenziali. Borghesi, problematici, annoiati Juan e Natalia provano a recuperare le proprie radici immergendosi in una natura inquietante e oscura in una realtá “doppia” (forse rappresentata dalle aure degli obiettivi che ne distorcono invero insopportabilmente la visione) che ricorda la situazione isolazionista e demoniaca di “Antichrist” di Lars von Trier. Intorno alla famiglia “in fuga” si palesa un microcosmo fatto di perdenti e amorali, senza stimoli intellettuali né possibilità di crescita o riscatto sociale. La dissonanza culturale e di classe tra i due mondi non lascia speranze e non può che sfociare in tragedia. La sconfitta di Utopia della generazione di mezzo, quella dei giovani protagonisti che tentano disperatamente di recuperare un legame con la propria terra, si manifesta impietosa e prevedibile prefigurando nella fuga da quel Messico, ritratto come un dolente simulacro della sua grandezza passata, l’unica soluzione possibile. Gli unici a potersi salvare sono proprio i figli, i soli a non subire le influenze di un Paese a loro alieno, ma imbevuti fin da piccoli di cultura occidentale di stampo anglosassone e totalmente estranei da misticismo e calore, se non in sporadiche visioni ancestrali e demoniache, ipnotiche e angoscianti. Il paragone con “Luz silenciosa”, certo, è impietoso e tanto questo film, pur premiato come miglior regia a Cannes 2012, è vittima di estetismi intellettualistici al limite del disturbante, quanto il precedente aveva colpito per il suo sincero vigore immaginifico e narrativo. Tanto basta per accogliere con più benevolenza un’opera probabilmente sfuggita di mano all’autore, ma che spicca per ambizione e conferma il valore di un regista da seguire con rispetto e senza preclusioni di sorta.