Una serata da tutto esaurito ieri, 11 ottobre 2017, al Cinema Massimo di Torino con la proiezione di “Mali Blues”, un prezioso documento sullo stato musicale e sociale di uno degli stati più importanti della regione sub-sahariana. Presentato dall’Associazione Renken, con il supporto del festival Seeyousound e il solito, imprescindibile, apporto del Museo Nazionale del Cinema, il bel film di Lutz Gregor è stato presentato alla presenza del regista che ha raccontato al pubblico aneddoti e curiosità.
Il cinema del Mali ha una data di nascita ben precisa. Quando la dichiarazione di indipendenza dalla Francia del 1960 portò in carica per circa 8 anni un governo di stampo marxista, si decise di investire risorse economiche e intellettuali nel campo cinematografico. Grazie ad un accordo con la scuola cinematografica di Mosca pertanto nacquero i primi registi protagonisti di questa rivoluzione culturale parallela a quella politica. Su tutti Djibril Kouyatè con i suoi film sul divario città/campagna e Souleymane Cissé, probabilmente il più noto al pubblico europeo, che attraverso una lunga carriera portò il cinema del suo paese, e per estensione di un intero continente, agli onori del mondo con il suo capolavoro “Yeleen”, “La luce”, girato in lingua Bambara, che vinse sorprendentemente il premio della critica a Cannes nel 1987.
In questo magnifico film che aveva fissato definitivamente alcuni tratti del cinema africano (storie semplici, inquadrature pittoriche, fotografia calda, presenza di elementi “magici”) si parlava di trasmissione del sapere tra generazioni, di comunicazione tra diversi, di classi sociali; e ancora, di crescita di autocoscienza e condizione femminile. Solo questo -è la tesi del regista- potrà condurre il Paese alla pace e alla “luce”, intesa come libertà intellettuale prim’ancora che politica.
Il genere di “Mali Blues”, con le sue 4 storie parallele di cantanti di estrazione diversa (griot e rapper), ha solo apparentemente poco a che vedere con il suo illustre progenitore; infatti, le tematiche profonde che lo caratterizzano sono le medesime. Ed è proprio il rispetto per il diverso, oltre allo scambio di culture, alla base del tema di questo film. “Gli oltre 300 gruppi etnici in Mali”, si afferma, “devono per forza comunicare tra di loro per essere parte di un unico sistema” e la musica può esserne l’icona unificante come una bandiera, una moneta o, perché no, l’effige di Mao che campeggia in piazza Tienanmen. E non è un caso che generi musicali contrapposti (il rapper è certamente più diretto e aggressivo della griot per esempio) sappiano comunicare tra loro molto meglio della politica.
Oltre all’importanza della trasmissione della cultura da genitore a figlio (altra tipicità in comune con Cissè), l’altro grande tema che si affronta in “Mali Blues” è certamente quello della condizione femminile. Lo si accenna implicitamente nei ruoli femminili delle protagoniste e nei testi delle canzoni; e se ne discute apertamente in una splendida sequenza cinematografica (“ne sono molto orgoglioso” confida il regista) dove un gruppo di donne parlano di mutilazioni e di parità, ben lontana da essere raggiunta. Temi questi cari all’altro grande regista di questa parte d’Africa, quel Ousmane Sembene che con il suo “Moolade” aveva detto tutto, con chiarezza e senza fronzoli.
Anche nella pura tecnica “Mali Blues” si dimostra vero cinema. I carrelli in ralenty sono splendidi e funzionali elementi del racconto che rappresentano plasticamente natura, società, povertà, sistema di commercio e di socialità. La musica ne accompagna il movimento lungo strade, fiumi, vie di comunicazione e come in tutto il film diventa metafora di autosufficienza culturale, unica e privilegiata chiave di accesso alla multiculturalità, all’accettazione dell’altro e ad una forma di autocoscienza e di moralità. Ancora una volta, inconfutabilmente, “music is the weapon”.
Fabrizio Dividi
Il regista Lutz Gregor alla presentazione di “Mali Blues” al Cinema Massimo di Torino