A partire dagli Anni ’60 Il nuovo cinema tedesco, corrente fondata da registi di eccezionale talento visionario oltre che di raro spirito innovativo, diede vita a un movimento collettivista in grado di educare il pubblico alla riflessione sulla storia –passata e contemporanea‐ del proprio Paese. E proprio a partire da quegli anni, in particolare grazie alle opere di Fassbinder, Kluge e Schlondorff, l’autocoscienza della Germania seppe maturare l’elaborazione di quell’ombra tanto tetra quanto rimossa che era stata il nazismo.
Film come “Germania d’autunno”, “Veronika Voss”, “Lili Marlene”, il monumentale “Berlin Alexanderplatz” e la Palma d’oro “Il tamburo di latta” fino alla ideale chiusura del cerchio rappresentata da “Heimat”, il capolavoro televisivo di Edgar Reitz, avevano contribuito non poco alla progressiva consapevolezza del proprio presente; ma anche alla corrosione del silenzio in cui la generazione post ’45 aveva dovuto necessariamente vivere per almeno vent’anni, Ma i primi Anni ’60, furono in qualche modo rivelatori anche negli Stati Uniti, laddove il film “Vincitori e vinti”, enciclopedico resoconto del processo di Norimberga diretto da Stanley Kramer, mostrò agli americani per la prima volta, e senza filtri, le sconvolgenti immagini girate ad Auschwitz a pochi giorni dalla liberazione sovietica del campo.
Il “Labirinto di bugie” di Giulio Ricciarelli si pone in questo ambito, pur essendo un film profondamente classico, negli stilemi e nella forma. Nella sua prima parte infatti, pur trattandosi di una storia realmente accaduta, assistiamo, ad una legal-story canonica che rimanda ai migliori esempi del genere (“Il socio” o “L’uomo della pioggia” o il precedente “Dossier Odessa” solo per citarne alcuni), e lo fa anche in maniera qualitativamente apprezzabile.
Ma è con il procedere del racconto che il film acquista gradualmente peso e drammaticità con il regista che ci conduce, attraverso la ricerca testarda di un giovane procuratore di Francoforte, alle tenebre sepolte nelle coscienze di un’intera Nazione. La banalità del male si svela nelle piccole cose: negli ordinativi di bombole di gas letale (il famigerato Zycklon B), nella conduzione dei treni ai campi di sterminio, nello scagliare il proprio cane contro persone indifese.
Nelle confessioni e negli occhi di persone “normali” sembra rivivere il cupo dramma di un intero popolo. Concetto che, molto più di qualunque altro film, aveva ben teorizzato lo storico Daniel Goldhagen nel suo saggio definitivo “I volonterosi carnefici di Hitler”, che tante polemiche aveva prodotto alla sua uscita alla fine degli Anni ’90, e in cui sosteneva senza mezzi termini la complicità di un’intera generazione ‐che consisteva nella migliore delle ipotesi di omertoso silenzio‐ con i crimini che il nazismo aveva commesso.
“Dovevamo solo aprire gli occhi” è la frase del film che spiega meglio un percorso, quello tedesco, che coinvolge da più di mezzo secolo generazioni contrapposte è che sembra il tentativo di comprendere, se non proprio riconciliare, le parti più oscure della propria storia. Un processo che richiede razionalità, onestà intellettuale e coraggio (di cui forse anche il nostro Paese avrebbe più spesso bisogno), qualità che il film, di un regista per un curioso gioco del destino italo‐tedesco, dimostra senz’altro di possedere.