Credo sia interessante collocare “Una pagina di follia” del 1926 rispetto al cinema e alle avanguardie del momento, segnalando alcune scelte tecniche e visive tipiche del periodo. Come la scena del ballo dei folli che ricorda “Metropolis” dove caos e perdizione creano un’atmosfera orgiastica simile alla lussuria che provoca la danza di Brigitte Helm davanti ad un pubblico lascivo e borghese. O come i tamburi che irrompono da un montaggio folle che sembrano usciti da un sogno di Dalì/Buñuel, anche se in questo caso non si tratta di scrittura automatica ma di una visione distorta della realtà. E anche le storpiature visive e alcune dissolvenze rimandano a Entr’acte di Clair (del 1924) in cui –analogamente- i flash back sono sinonimo di follia.
La specificità di KURUTTA IPPEJI però, a mio parere, va ricercata in una certa anomalia dell’uso di alcune figure cinematografiche utilizzate in maniera sorprendentemente funzionale al racconto. Più storia e meno scarno sperimentalismo dunque, come nel lungo carrello all’indietro in un corridoio del manicomio, che precorre decine di film in cui il corridoio diventerà metafora di distacco dalla realtà; o in quello puramente ”narrativo” laterale –splendido- che stupisce per rigore e modernità.
E anche gli stilemi del genere horror, codificato come pochi, si sviluppano e rigenerano le ispirazioni precedenti (ovviamente espressioniste con il “Caligari” in testa) con visi distorti (la bambina sembra la trisavola degli horror giapponesi contemporanei), ombre premonitrici e l’immancabile luna park, luogo di fascinazione per eccellenza di tutto il secolo successivo. Un film unico dunque, e parafrasando Prawer Siegbert, fondamentale per conoscere meglio i figli che ne sarebbero nati.