Tra tutti i film dedicati allo sguardo infantile sugli orrori della guerra, quello più affine a “Il grande quaderno” sembra essere “Il tamburo di latta”, di Volker Schlondorff (leggi qui). Entrambi immersi nel momento storico peggiore del secolo scorso, non solo raccontano vite di adolescenti piegati dalla guerra e dai rispettivi ambienti famigliari, ma pongono al centro del sistema narrativo il medesimo principio: un folle giuramento fatto a se stessi per sopravvivere al dolore assoluto.
Nel film tedesco, Palma d’oro a Cannes del 1979, tratto dal capolavoro di Gunter Grass, il piccolo protagonista, per difendersi degli orrori, aveva deciso di non crescere mai più. Una sorta di Peter Pan tragico e grottesco che vedeva come unica forma di difesa la negazione in toto del mondo degli adulti. Nel film di Janos Szasz, anch’esso tratto da un romanzo complesso e profondo come la “Trilogia della città di K”, di Agota Kristof, i due gemelli si ripromettono di non soffrire mai più e per questo motivo si allenano al dolore più estremo forgiando corpo e mente alle aggressioni fisiche e verbali più estreme.
Ambientato nella casa di campagna della nonna che definire anaffettiva pare limitativo, peraltro situata a pochi metri dal recinto di un campo di sterminio nazista nell’Ungheria del 1944, il film di Szasz colpisce per potenza espressiva e visiva tipiche del cinema d’oltre Cortina, da Andrej Zvyagintsev (Il ritorno) a György Pálfi (Taxidermia, leggi qui).
In realtà il film, che racconta le inevitabili disgrazie con cinismo e un tonosottilmente anti realistico, è un vero e proprio percorso psicanalitico dei due ragazzi così vessati da risultare, paradossalmente, inquietanti. E il disturbante, impercettibile imbarazzo viene elevato di potenza proprio dal loro essere doppi, perturbanti come solo i gemelli sanno essere, tanto da ricordare le più angoscianti figure di bambini “cloni” della storia del cinema, a partire dai piccoli mostri de “La stirpe dei dannati”. E non è un caso che il quaderno si trasformi progressivamente in manifestazione mentale degli orrori cui sono sottoposti, nonché simbolica rassegna di figure di Rorschach, sempre più deformi e mostruose. Molte situazioni infatti si caratterizzano per una forte connotazione allegorica, e come per il piccolo Oskar de “Il tamburo di latta”, il vero tema del film risulterà essere la ricerca della maturazione che sfocerà in un finale sorprendentemente simile al film di Schlondorff.
In definitiva la ricerca della crescita dei due ragazzi, che il padre fissa all’inizio nel film nella loro capacità di vivere vite distinte, avverrà, in un modo o nell’altro attraverso passaggi obbligati che riguardano tutti noi, e sui quali un film poderoso e visionario fa riflettere a lungo.
Fabrizio Dividi