Immaginiamo che la sceneggiatura di “Giorni contati” sia stata ricavata da un racconto di Pirandello: ne riscontreremmo lo stesso approccio analitico nella descrizione del protagonista e le medesime soluzioni narrative come circolarità del racconto, verosimiglianza che vince sul realismo, umorismo ‘pietoso’ e mai gratuito.
Petri, già fa intravedere le sue poteri doti di entomologo e gestisce il suo pupo preferito, un immenso Salvo Randone, con le stesse tecniche del successivo alter ego Gian Maria Volonte. Per la verità Randone avrà poi spesso ruoli cameo nei film del regista siciliano, ma in questo caso la sua incarnazione dell’anti-eroe metropolitano alienato e alla ricerca di risposte, è semplicemente perfetto.
Negli anni dell’esistenzialismo, ecco una risposta sferzante su chi cerca il significato della vita e della morte. Tutto nasce da un evento casuale (ancora Pirandello), la morte di un uomo in un autobus in un giorno caldo e appicicoso di Roma, proprio sotto gli occhi del protagonista che inizia una intima e grottesca danza macabra in una metropoli popolata da mostri, artisti, falliti, superficiali, lolite e masse di popolani beceri e inconsapevoli di ciò che attende tutti. I richiami mortiferi si manifestano allo stagnaro in modi sempre più espliciti fino a diventare una vera e propria foresta di segni tra roghi infernali, lapidi, richiami alla fine imminente che fa di tutti noi dei ‘dead men’, nella accezione che ne dà Jim Jarmush .
Più Pasolini di Fellini, Giorni contati non è nemmeno un film neorealista anche se i temi lo possono far pensare. Non vi è un senso morale da dare alla società ma solo uno sguardo critico sulle sue contraddizioni, un ritratto feroce e senza speranze nella migliore tradizione letteraria della Sicilia di Elio Petri.