Per gli indiani Lakota, lo scalpo era qualcosa in più che un trofeo di guerra; essi credevano che i capelli fossero l’estensione dell’anima e staccandoli dal corpo della vittima, ne avrebbero fatto vagare il fantasma in eterno. In ‘Hair extensions” Sion Sono recupera e arricchisce questa credenza innestandola in un altro stilema classico del cinema horror giapponese che, rifacendosi a racconti tradizionali, impone all’anima di fare giustizia dei propri assassini vagando incessantemente fino alla compiuta vendetta. in questo film, che fa dell’eccesso visionario un punto di arrivo difficilmente avvicinabile, le chiome del cadavere di una ragazza uccisa per estrarne gli organi, prendono vita e grazie alla macabra occupazione di un coroner, dedito al feticismo dei capelli. Costui vive in un antro spettrale, buio, grottesco e si prende cura del corpo (sottratto all’ospedale) che genera continuamente metri e metri di nera peluria; sempre più ossessionato dal magico feticcio ne crea delle extension diffondendo il macabro incantesimo. Le ragazze che ne fanno uso infatti vengono uccise, seviziate e invase nel corpo e in ogni orifizio da folti e mostruosi ciuffi di capelli che crescono da unghie, occhi e lingua con impressionante realismo. Montagne di capelli che fanno pensare alle teche di Auschwitz prendono vita e danno disagio fisico, coprendo lo schermo con richiami espliciti agli ettolitri di sangue che grondano dalle pareti in “Shining”. Le morti sono esteticamente sublimi, orge di colori e forme, tipiche (e topiche) dei migliori registi pop contemporanei del Sol levante, come Miike Takashi e Tsukamoto Shinya. Richiami a “Three extreemes” e più in generale al bondage e al sacrificio rituale sono sviluppati e modernizzati in un iperbolico prodotto per cultori appassionati di un genere definibile “Japan fetish” e di cui i “Guinea pig” sono l’estensione, termine quanto mai adeguato, più estrema. Il finale non tradisce, seppur nel suo parossistico classicismo di genere, è puro piacere per gli occhi anche se lascia un velato disgusto allo spettatore al primo utilizzo del pettine.