Stanley Kubrick era già perfettamente consapevole del valore del suo film d’esordio, subito ripudiato, definendolo imperfetto e pretenzioso. Ma quello che possiamo considerare uno “studio” del suo lavoro futuro, oggi risulta essere una vera miniera di segni, questi si inconsapevoli, del cinema futuro del regista newyorchese.
Un gruppo di soldati che in seguito ad un incidente aereo si ritrova oltre il fronte nemico, deve organizzare il rientro e si imbatte in un paio di eventi. L’incontro con una ragazza e l’imprevisto, eroico, assalto ad un drappello di nemici a ridosso della linea di fuoco fra i due eserciti. Storia canonica dunque, ma resa altamente simbolica da una regia che già prevedeva stilemi e modalità che in futuro sarebbero diventati il marchio di fabbrica di Stanley Kubrick.
L’influenza del fotografo è piuttosto evidente nei frequenti primi piani, fin troppo autoriali, e in alcuni abbozzi di inquadrature simmetriche che diventeranno una delle cifre stilistiche più rappresentative del regista. I personaggi si muovono come automi, manichini manovrati dal destino, passivi e inespressivi; e il soldato che impazzirà letteralmente di fronte agli eventi disumani cui sarà costretto ad assistere, ricorda da vicino il futuro soldato Joker di “Full Metal Jacket”, prima guascone e poi –esattamente come in questo caso dopo la insensata uccisione di una ragazza – definitivamente spersonalizzato e sconfitto fino alla distorsione corporale che caratterizzerà sempre tutti i “folli” kubrichiani, da Stranamore a Jack Torrance. Sempre In FMJ tamburi di sottofondo si confondono con la colonna sonora, creando un primitivo ed inquietante “surround” che accompagna ritmicamente il quartetto nella foresta sconosciuta.
Il generale nemico, accompagnato da un grottesco tenente, straparla da filosofo di vita e di morte (ancora Stranamore) e la geniale trovata di farli interpretare dagli stessi attori dei loro killer, provoca spaesamento e , soprattutto, rappresentano un chiaro significato etico e antimilitarista. Anche il distacco amorale dei superiori ricorda esplicitamente la razionalità e il cinismo dei generali in “Orizzonti di gloria” dove la conquista del “formicaio” diventa mera occasione di prestigio personale.
L’uso della soggettiva è già maturo: lo sguardo, spesso oscurato da elementi della natura circostante (“Lolita” ne è colmo), è simbolo di feticismo di possesso e i particolari di occhi che scrutano senza essere visti ricorda il tema tipico del voyeurismo che sarà tema di studio in “Lolita”, “Shining” e ovviamente “Eyes wide shut”.
In “Fear and desire”, il primo titolo doppio e antitetico che diventerà piuttosto comune nella filmografia di Kubrick (Arancia meccanica, Il bacio dell’assassino, Eyes wide shut), si scava nell’inconscio profondo, nella paura della morte e del buon uso della vita stessa, ma anche nel desiderio di riscatto e di reciprocità. Il tutto porta inesorabilmente al disincanto, alla follia, alla morte: ecco i veri temi ricorrenti di un regista che era già un genio ma non lo sapeva ancora.