Fando e Lys sono due fidanzati, girovaghi alla ricerca di Tar, il paese incantato, dove tutto ciò che si desidera è possibile. La foresta di segni è quasi inestricabile e l’impianto allegorico potente ma le idee già masticate nei film seguenti, anche se distribuiti molti anni prima, possono concederci qualche indizio sulle sue tematiche: la ricerca della felicità, la rinascita simbolica e la lotta impari contro le convenzioni sociali che comportano la dissoluzione dell’identità, ad esempio, sono tre ossessioni del guru cileno e già in questi anni affiorano con energia nella sua poetica. “La talpa (ovvero il topo) è un animale che scava sottoterra e che quando arriva in superficie e vede il sole, diventa cieco.” La morale di Jodorowsky sta tutta in queste due righe che fanno da prefazione a “El topo”, e che vengono confermate dal regista stesso al termine de “La montagna sacra”. Qui irrompeva nello spazio diegetico spronando lo spettatore a cercare le risposte dentro di sé senza inseguire vane chimere, e anche nel “Paese” afferma che il viaggio iniziatico di per se stesso aiuterà a crescere, senza che ci sia nulla di risolutivo al temine della ricerca. L’universo semantico dell’itinerario compiuto dai due è già ben chiaro nell’immaginario jodoroschiano: il deserto, gli incontri con esseri deformi e l’atmosfera circense sono debitori del surrealismo buneliano della prima ora con citazioni visive, se non esplicite, di assoluta rilevanza soprattutto se pensiamo alle ambientazioni polverose dell’incipit dell’”Age d’or” (la lotta degli scorpioni) e alle storture immaginifiche del “Chien andalou”. Nell’altro, evidente, rimando iconografico alla coppia Bunuel-Dalì l’arte borghese e conservatrice, rappresentata dal pianoforte –simbolo del fardello culturale che ci opprime dalla nascita- viene attaccata e distrutta. Il percorso di Fando è lastricato di tentazioni bibliche, ammantate di mistico esoterismo, fra sesso, cibo e morte, che provocano reazioni violente al cambiamento e alla maturazione. Il protagonista in fondo ama Lys -paralizzata nel corpo e tuttavia serena nella sua incapacità di ricercare una realtà alternativa- ma la maltratta, la tradisce disprezzandola, sempre alla ricerca di una vita migliore. Si sottopone a grottesche prove iniziatiche che oggi definiremmo “psicomagiche” ma ne esce sempre sconfitto nello spirito, arrivando anche ad uccidere simbolicamente i propri genitori, tappa assolutamente necessaria in tutti i film del regista, ma senza guarire dal proprio malessere esistenziale; davvero significativa in questo senso la “nascita” delle serpi dal ventre di una bambola che rappresenta la naturale conflittualità tra genitori e figli che, per guarirne, và sempre palesata senza ipocrisie di sorta.
Bambole dunque, ma anche una accomulazione parossistica di pupazzi e fantocci che simboleggiano la massificazione culturale cui siamo sottoposti. La dissoluzione dell’identità attraverso la moltiplicazione del proprio simulacro è un rischio anche per il Gesù di “Holy mountain” e qui se ne intravedono i germi riconoscibili più chiaramente con la conoscenza a posteriori degli stilemi del regista. Insomma, per chi ha già avuto modo di apprezzare il cinema di Alejandro “Il Paese incantato” non aggiunge un granché alla sua filmografia, ma come in tutte le opere prime, la ricerca alle radici dei suoi temi ricorrenti può alimentare uno stimolante esercizio dialettico e merita sicuramente la visione.