Quando il cinema si occupa di storia recente si assume molti rischi ed una precisa responsabilità. Rischi perché il ricordo dei fatti è ancora vivido, o almeno così sembra, visto che ognuno è geloso del proprio, e pronto a contestare il punto di vista degli altri; perché ci sono protagonisti in carne ed ossa che si vedono rappresentati sullo schermo in maniera inevitabilmente distorta e, soprattutto in episodi come il G8 di Genova, perché si trattano temi che hanno diviso e scosso polemicamente l’opinione pubblica in misura così profonda e persistente.
La responsabilità però è ancora più vincolante, e concerne il dovere etico stesso dell’autore teso a preservare, per quanto possibile, quel che possiamo descrivere sinteticamente con la parola “Verità”.
Il regista Vicari si assume consapevolmente il fardello di rischi e doveri trasformandoli in ali e fa volare alto la sua creatura: Diaz è un film potente, scuote le coscienze con i nudi fatti, descrive con perspicace equilibrio un evento spinoso della nostra storia con il potere del mezzo cinematografico sapientemente dosato e di cui non abusa in nessuna circostanza. Il miracolo sta proprio qui, entrare nel cuore dei fatti, anche senza calcare la mano, se si vanno a rileggere le ricostruzioni processuali riconosciute veritiere al di là di ogni dubbio, di quella notte a Genova. E il film raggiunge l’obiettivo senza lasciarsi tentare da un giudizio politico, fin troppo ovvio nelle sue conclusioni, che è compito della storia e dello spettatore (o meglio sarebbe del cittadino) e non di un cinema che cali dall’alto la sua morale come una scure sullo spirito critico dell’opinione pubblica. In questo senso le opposizioni stucchevoli da destra e da sinistra sono sterili, arrotolate su se stesse e su una dialettica incancrenita da svariati decenni e in un clima italico che nessuna riconciliazione storica è mai riuscito a svelenire e che non può lasciarsi sfuggire un’occasione così ghiotta per ri-inasprire il confronto.
Eppure esiste un terreno di discussione appropriato per un giudizio spassionato di Diaz ed è quello meramente artistico. Assistiamo al ritorno ad un cinema puro, che non mette la regia in primo piano né il divo di turno in prima pagina e che si affida a poche ma funzionali forme di linguaggio cinematografico che impreziosiscono un opera tra le migliori italiane del decennio. Come il rallenty del lancio di una bottiglia che accompagna la scansione temporale ellittica del racconto e che ricorda il roteare dell’osso (proto-arma assoluta) del kubrickiano “2001”; come l’uso della lingua nella confusa babele comunicativa insieme documentale ( il social forum era un oggettivo e in parte utopico sogno di trasversalità culturale) ed estraniante nelle sequenze più drammatiche in cui sono le botte a parlare; come le ricostruzioni accurate, anche nelle inquadrature, che riportano con efficacia ai tg di quei giorni drammatici, quasi a confondersi con essi grazie ad una fotografia più sgranata e contrastata. Ed infine nella pennellata espressionista e caricaturale di cui si connotano alcuni personaggi, mai nominati con il loro nome come sfregio più grande (ricordate l’assassino di Jesse James? Troppo infame per ricordarne l’identità), e che riportano alla interminabile e grottesca galleria iconica di registi come Zampa, Rosi, Petri fino a Garrone e Sorrentino stessi. Allo stesso modo, Diaz scardina e spolpa il potere con il semplice utilizzo della Storia, asciutta, inattaccabile e per questo terribilmente morale, l’unico modo possibile per raccontare la nostra ‘personale’ “Notte delle matite spezzate” all’italiana.