In “Dead in Sarajevo” Tanovic trasferisce le trincee di fango dei Balcani agli eleganti corridoi di un hotel di lusso. Ma la dialettica degli opposti non cambia. Anzi, la complessità della storia della ex-Jugoslavia si arricchisce di spunti e riflessioni in un perfetto gioco di rappresentazione allegorica.
L’hotel è l’Europa di oggi. Governata dalla pallida ombra del suo fondatore simbolico, il direttore Omer(o), e servendosi di un finto documentario per rinfrescarci la memoria sulle vicende della città da un secolo a questa parte, il regista costruisce un claustrofobico sistema fatto di rivendicazioni, soprusi, patteggiamenti più o meno leciti e rivisitazioni della Storia che poco hanno di oggettivo.
Nell’hotel “Europa”, strutturato in livelli (piani) altamente simbolici, non ci sono “noi” ma solo individui che lottano per il proprio interesse, dal giornalista colto (ma infido) fino all’ultimo degli inservienti che scambia l’onore per il posto di lavoro. Piani sequenza magistrali, recitazione serrata, un pizzico di umorismo fanno il resto. Il film lascia il segno e ci lascia sottilmente inquieti. Che l’Europa unita non si riduca ad un ovattato albergo, tranquillizzato, o meglio dire anestetizzato, da un’insulsa musichetta da ascensore?