Se un bambino coltiva un germe di se stesso adulto, la società in cui vive ne presagisce la condizione futura. E’ forse una delle chiavi di lettura possibili de “Il primo uomo”, ma la forza che Amelio imprime al suo film è di riuscire a tessere più tele contemporaneamente, fino a fare dimenticare che il protagonista sullo schermo è lo scrittore feticcio Albert Camus.
Il depotenziamento dello stilema iconografico classico dell’intellettuale francese d’altronde nasce da lontano, proprio dallo stesso Camus, che nel suo ultimo libro (incompiuto) scrive la sua biografia sotto forma di romanzo, cambiandosi addirittura il nome; e in questo senso il film ha il grande merito di rimanere fedele al testo di riferimento affrancandosi dalle didascaliche e limitative sembianze di un film meramente “biografico”.
La storia procede su due piani temporali: il primo, in un’Algeria degli Anni ’20, in cui si intravedono le prime contraddizioni di una convivenza pacifica ma già problematica tra indigeni e coloni francesi. Jacques, alter-ego di Camus, è un bambino riflessivo, obbediente, timido ma orgoglioso che fa tesoro di ogni piccola esperienza per maturare e crescere con forti figure femminili di riferimento, mamma e nonna, che hanno tratti archetipici di ogni famiglia. Un maestro illuminato e uno zio affettuoso completano il retaggio sociale di cui il piccolo si ciba, supplendo all’assenza del padre morto in guerra. Qui le tappe di crescita sono raccontate senza estetismi né aneddotica oleografica, ma per tappe iniziatiche che fanno crescere il piccolo tra punizioni corporali severe, ma forse rimpiante, e avventure godibili e malinconiche di stampo truffautiano.
L’Algeria dello scrittore adulto (siamo a fine Anni ’50) è al contrario un paese sfasciato dalla resistenza all’oppressore francese, ferito da attentati e da un inconciliabile rapporto tra opposte fazioni. Il protagonista torna in un paese che gli appartiene solo nei ricordi e nella presenza della madre, del maestro e dello zio, meravigliose icone del tempo che fugge. La polizia batte i vecchi quartieri di Algeri, i compagni di un tempo sono oppressi e privati di affetti e libertà. Le contraddizioni di un tempo si manifestano nella vita plumbea e nella esplosione di una bomba in pieno centro, esplorata con una carrellata d’autore che la penetra con uno sguardo di grande cinema.
Il primo uomo non ha la potenza deflagrante de “La battaglia di Algeri” ma con il suo stile pulito, essenziale e familiare supera il rischio della retorica e apre uno squarcio luminosissimo su quella che è stata la questione algerina. Gianni Amelio riesce a tenere il passo del romanzo e a girare con mirabile intensità un film intimo e poetico, ma contemporaneamente di respiro politico assoluto.