Una delle tante leggende metropolitane su Stanley Kubrick narrava che il regista stesse girando da decenni un film interpretato da un uomo filmato fin dalla nascita e per tutto il corso della sua vita. Come per altre numerose sciocchezze riguardanti il maestro newyorchese, ovviamente, non c’era nulla di fondato ma l’idea stessa che un film del genere fosse possibile solo nel mondo delle idee la dice lunga sulla difficoltà di un progetto simile.
Ecco perché “Boyhood” merita a priori un plauso per il coraggio di affrontare un cammino lungo più di un decennio, con le difficoltà e con i rischi che si possono immaginare, a partire dalla coerenza recitativa richiesta agli attori nell’immedesimazione nel proprio personaggio, fino ai problemi più pratici come quelli produttivi e organizzativi. Se poi pensiamo a quanto siano avanzate le tecniche digitali, possiamo immaginare lo sforzo di dare uniformità alla fotografia; obiettivo raggiunto, con quelle piccole differenze di luce e grana che si colgono dall’inizio alla fine, generalmente ricreate in post-produzione, che sono esteticamente funzionali allo scorrere del tempo.
È proprio in queste piccole-grandi anomalie che vanno ricercati i pregi di una pellicola il cui senso -a tratti- risulterebbe altrimenti incomprensibile. Anche per quanto riguarda le regole narrative infatti siamo di fronte ad uno stile decisamente fuori dal comune. A livello puramente cinematografico la difficoltà di girare un film sulla vita del quotidiano, oltre che per la compressione di 12 anni in 2-3 ore di girato, risiede nella necessità di rendere intrigante la sceneggiatura. In questo caso la storia procede attraverso episodi circolari, apparentemente insignificanti. Vicende monotone e proprio per questo credibili e quasi documentaristiche ci raccontano la vita di un ragazzino dall’infanzia all’adolescenza, attraverso una normalità talmente priva di drammatizzazione da risultare anti-cinematografica. Ed è paradossale che i pochi artifici “preparati” anni prima (l’imbarazzante episodio di Ernesto per esempio) siano posticci e privi di verosimiglianza.
Un altro motivo d’interesse, ovviamente, è la crescita lenta ma inesorabile del protagonista (e della sorella) che vediamo modificare il suo aspetto negli anni come mai era successo nel cinema. Il tempo, si sa, è una categoria cui le arti hanno dedicato da sempre attenzione particolare; ma il malinconico disagio che provoca il film non è semplicemente frutto della proverbiale idiosincrasia che l’essere umano prova per il trascorrere degli anni. A questo proposito vorrei soffermarmi su una sensazione avvertita al primo salto temporale -di un paio di anni- condivisa da un sensibile brusio in sala.
Perché inquieta vedere un personaggio che invecchia nella finzione pur se in maniera coerente con la realtà? Dopotutto dovrebbe essere molto più spiazzante un cambio di attore, o un utilizzo massiccio del trucco, come il cinema ci ha abituato nell’ultimo secolo. Credo che il motivo sia proprio nell’abitudine ad un linguaggio –quello cinematografico- poco studiato e dato per scontato dal pubblico ma che quando devia dalla normalità provoca quel brivido che Freud definiva “perturbante”. Con il termine “Unheimliche”, si intende “una particolare attitudine in ambito estetico che si sviluppa quando una cosa (o una persona, una impressione, un fatto o una situazione) viene avvertita come familiare ed estranea allo stesso tempo cagionando generica angoscia unita ad una spiacevole sensazione di confusione ed estraneità”. (da Wikipidia)
Pensiamo alla trasformazione archetipica di Jekyll in Hyde, o di Lon Chaney nell’uomo lupo. Quella sensazione di spaesamento che viene determinata da una metamorfosi e che ha ne “La mosca” e in “Tetsuo” (Ovidio e Kafka a parte) alcuni degli esempi più significativi, si ricrea in seguito a quello che potremmo definire il più lungo morphing della storia del cinema. “Boyhood” provoca tutto questo, concentrando come in un ossimoro visivo velocità del tempo (12 anni “reali” in 163 minuti) e lentezza del quotidiano. Quanto basta per rendere merito al regista Richard Linklater e al suo film, tanto folle e sperimentalmente “wharoliano” quanto interessante e assolutamente consigliabile.