La cinematografia turca degli ultimi anni ci ha abituato bene, soprattutto con quel Nuri Bilge Ceylan che film dopo film continua a crescere. Qui ci troviamo di fronte ad un film più intimo e meno ad ampio respiro, ma decisamente interessante.
La giovane protagonista di “Until I lose my breath” è inquieta. I suoi rapporti familiari sono problematici e appesi ad un legame col padre mai risolto. La ripetitività dei suoi gesti, tra casa, lavoro e strade di una Istanbul trafficata e nascosta, tiene alta la tensione del film, soprattutto per via di quei pochi soldi che settimanalmente nasconde ai suoi affittuari e che raccoglie per un ipotetico quanto improbabile futuro “migliore”.
Ma guardando il film, peraltro di alta qualità visiva e attoriale, si avverte una spiacevole sensazione di dėja-vu. Lo stile di ripresa (il pedinamento costante della protagonista con la macchina a spalla); l’assenza di colonna sonora, sostituita dai rumori del traffico che accentuano il senso documentaristico e sociale del film; il modo di dipanare lo script (con la tipica centralità del personaggio appeso a sogni non esaudibili e a universi rivolti solo in se stesso); e soprattutto il modo di recitare, realistico di protagonisti egoriferiti). Tutto concorre a inserire il film in una ideale filmografia dei fratelli Dardenne, incastrato tra “Rosetta”, e “Il matrimonio di Lorna”, e per certi versi a “Il figlio”. Una “replica” di livello ma un po’ troppo smaccata che toglie qualcosa al bel film della esordiente Emine Emel Balci e che ne intacca, almeno parzialmente, l’indubbio valore.