Con i tre film sequenziali “Post mortem”, “Tony Manero” (vincitore dell’edizione 2008 del Torino Film Festival) e “NO”, Pablo Larrain aveva vivisezionato la storia del Cile a partire da quell’11 settembre del 1973, giorno della morte di Allende fino a quello della vittoria del referendum –il 5 ottobre 1988- che di fatto relegò inaspettatamente Pinochet a ruolo di capo dell’opposizione.
Anche se “El club” viene descritto come una critica alla Chiesa nella sua ipocrisia delle gestioni “interne” dei processi ai suoi membri, il film non fa che completare ulteriormente il discorso del regista sui poteri forti del suo Paese, servendosi di attori a lui cari e rispettando le sue peculiarità ferocemente grottesche.
Una suora e un gruppo di preti imputati di colpe come furto, pedofilia e omosessualità, vivono relegati in una casa-famiglia, per evitare lo scandalo di un processo. La comunità crea una sistema di connivenza autosufficiente tanto da preoccupare seriamente il potere ecclesiastico dal quale si è reso indipendente. I membri del “club” infatti guadagnano allevando cani da corsa e svincolandosi al limite dell’eresia dal sistema che non può accettare la loro regola di convivenza, fin quando un uomo, vittima in gioventù di ripetuti abusi, comincerà a perseguitarli. Con il pretesto di riparare allo scandalo, un gesuita viene inviato dal Vaticano a condurre un’inchiesta mirata a smantellare la loro autonomia. Il finale avrà il sapore di una beffa, obbligando le due parti del conflitto, vittime e carnefici, ad un legame obbligato che sa di contrappasso. La soluzione è un vincolo coatto come dolorosa allegoria della riconciliazione nazionale cui il Cile, per sopravvivere ed evitare la guerra civile, ha dovuto accettare negli ultimi decenni: un male necessario che Larrain aveva già dimostrato di mal sopportare se pensiamo all’amaro finale di “No”, e soprattutto dal giudizio senza appello che il regista aveva espresso sulla dittatura di Pinochet nei film precedenti.
Una cosa è certa, pur non arrivando agli squarci di altissimo cinema dei suoi primi film, “El club” conferma la capacità di Larrain di affrescare il suo Paese con una lucidità estrema e, dal punto di vista cinematografico, di acquisire film dopo film una sensibilità ed uno stile unici, personali di altissimo valore estetico, ponendolo senza dubbio tra i registi sudamericani più significativi del decennio.