A metà tra l’horror generazionale e una colta rivisitazione del genere d’invasione. “Attack the block” non delude le aspettative di un pubblico assetato di effetti speciali (senza eccedervi) né di coloro che aspirano ad un visione colta pur di un genere considerato minore. La passata partecipazione in un festival d’elite come il Torino Film Festival ne è la controprova, seguito com’è da un osservatorio tradizionalmente selezionato ed esigente che ne aveva apprezzato la visione in concorso nella 29sima edizione nel novembre 2011.
Londra, notte di festeggiamenti, cielo stellato illuminato da centinaia di fuochi d’artificio: una gang aggredisce una ragazza per rubarle quel poco di prezioso che porta con sé e tra un botto e l’altro si scorge qualcosa di molto simile ad un bolide che attraversa il cielo illuminato a giorno e colpisce un’auto. E’ solo l’inizio dell’invasione di primati urlatori alieni, descritti esplicitamente come oranghi (o Gollum), dotati di zanne fluorescenti e caratterizzanti da una pelliccia nero-pece che li mimetizza nella notte.
Cose già viste insomma, se non fosse che l’ambientazione e i protagonisti di questo curioso film diretto dal londinese Joe Cornish, si distingue per intelligenza e tematiche da molti suoi capostipiti. La banda urbana infatti diventa protagonista di una strenua difesa del quartiere, ben lungi dall’idea archetipica di pianeta o patria-nazione (anche se nel finale il protagonista di colore Moses riuscirá a salvarsi solo grazie ad un vessillo britannico appeso ad un balcone) o talvolta nucleo famigliare, ma non per questo meno intensa ed eroica. Quelli che fino a pochi minuti prima erano teppistelli da condannare senza appello, diventano eroi di una guerra privata mirata a difendere il loro territorio, e sopratttutto, senza l’aiuto di estranei né tantomeno di forze dell’ordine ufficiali. In questo senso si evince uno spirito prettamente anarcoide che viene esaltato dalla straordinaria prova di un manipolo di ragazzini in bicicletta che da ras del quartiere diventano coraggiosi guerrieri della notte, armati di ciò che conoscono meglio, e frutto di una (sotto?)cultura specificatamente adolescenziale che li porta ad affrontare gli alieni come in un videogioco.
Armati di armi-icone tribali e postmoderne al tempo stesso, come machete e katana da collezione, razzi inforcati a spalla come frecce di antichi cavalieri e moto usate come cavalli in un trofeo medievale, i ragazzi si scoprono clan attaccando i bestioni assassini e lo fanno come i protagonisti delle epopee cantate da Scott attaccando una torre in legno che da gioco in un giardino pubblico riassume le sembianze tipiche di fortezza merlata, simbolo letterario di cavalieri d’armi e d’amore.
Spiega il regista: «Nel 2001, una gang di ragazzini mi rubò il portafoglio e il cellulare approfittando semplicemente della propria superiorità numerica. Erano molto giovani: un fatto che mi colpì. L’idea della Terra bersaglio di un attacco alieno mi ha sempre affascinato, così cominciai a pensare: cosa succederebbe se tutto questo accadesse nel quartiere dove sono cresciuto nel Sud di Londra? E come sarebbe andata se una cosa del genere si fosse verificata mentre mi stavano rapinando? Da qui l’idea di un gruppo di ragazzini, emarginati dalla società e temuti da tutti che improvvisamente diventano eroi».
Il linguaggio stesso fa presupporre una cultura televisiva e da gameplayer con riferimenti continui ai mostri di Harry Potter, a Metal Gear Solid e a marchi universali come Blockbuster, National Geographich e XBox, ma sempre con un’occhio implicito alla storia “ufficiale” della propria nazione e il tutto è condito da una colonna sonora -diegetica ed extradiegetica- di stampo rap che accompagna le scorribande della banda. E a questo proposito non è casuale la biografia di Cornish (1968) che con The Adam and Joe Show aveva vinto il premio per i nuovi talenti della Royal Television Society nel 1998. Ha quindi lavorato come regista e come presentatore e al fianco di Adam Buxton, è stato premiato ai 2008 Broadcasting Press Guild Awards con il programma radiofonico dell’anno; ha poi ricevuto tre Silver Sony Awards nel 2009 e un Sony Gold come miglior commedia radiofonica nel 2010 e ha scritto, per la Marvel, la sceneggiatura di The Astonishing Ant Man insieme a Edgar Wright, con cui ha anche cosceneggiato Le avventure di Tintin – Il segreto dell’unicorno (2011) di Steven Spielberg.
Tornando ad “Attack the block, il suo esordio nella regia cinematografica, Il teatro della battaglia è un mega condominio posto alla periferia di Londra, a Ballard Street (ci piace pensare che si tratti di un omaggio al noto scrittore di “Condominium”) e il messaggio neanche tanto sotterraneo è che in quel contesto ci si deve difendere da soli; nessuna fiducia alle autorità (definite come i “veri mostri”) né tantomeno ad una sorta di giustizia istituzionalizzata di facciata che non tiene conto di differenze razziali e sociali. Curiosa la interpretazione paranoica di alcuni dei protagonisti che ritengono l’invasione causata dal Governo che “vuole spazzare via i neri dopo averci provato con la droga per le strade”, originale rivisitazione di leggende metropolitane cicliche che contrappongono la razza bianca -il potere costituito- a quella ‘black’, minoritaria e soccombente (nello Zaire di Mubutu si paventavano virus americani in grado di colpire solo indigeni dalla pelle nera).
Pur nella sua dichiarata accezione giovanilistica, il film scorre piacevole, e cosa non scontata, riesce ad offrire un punto di vista “sociale” ancora inedito nella eterna battaglia contro gli alieni, qui in versione “donkey-Kong”, facendo riflettere sui motivi dell’alienazione di realtà urbane meno appariscenti e pericolose, vere e proprie giungle d’asfalto da conoscere culturalmente prima di giudicarle sommariamente come aree infrequentabili, pericolose e sottosviluppate.
Il tema del razzismo/classismo è senza dubbio focale e non si può fare a meno di collegare questo film -in definitiva molto ben riuscito- al sicuramente più incisivo “District 9” in cui alieni insettomorfi vengono relegati nelle bidonville di Soweto e ridotti in schiavitù dalla razza (terresre) padrona.
In definitiva, “Attack the block” è un film profondamente British, cultura allo stesso tempo multiculturale e autarchica, che riconosce pari diritti a nobili e rockettari, regine e punk, ma in cui il riconoscimento sociale, come nelle migliori tradizioni del capitalismo, va sempre guadagnato con il massimo sforzo, con le proprie forze, ad ogni costo.