L’utilizzo della voce in sostituzione del corpo ha avuto nel cinema esempi illustri: pensiamo a “Il mago di Oz”, “2001: Odissea nello spazio”, “Il giudizio universale” per citarne alcuni, e l’argentino “Adios entusiasmo” di Vladimir Durán (Berlinale 2017), senza addentrarmi in paragoni sconsiderati, si guadagna a pieno merito il diritto di entrare nel club.
La storia è tanto semplice quanto agghiacciante. I membri di uno strano e perverso clan matriarcale si rapportano quotidianamente con una donna affetta da malattia mentale che vive reclusa in una stanza la cui porta è bloccata da un solido lucchetto.
I dialoghi sono solo apparentemente normali, in realtà sono profondamente disturbanti, sintomo di una malsana reciprocità. La donna infatti, di cui si percepisce solo la voce, gestisce il resto della famiglia attraverso ordini, preghiere, perfidi giochi dialettici. La “materia oscura” che tutto attraversa e compenetra a cui si fa riferimento nell’incipit, non è altro che la follia che più cerchi di nascondere è più ti divora dall’interno, e tutti, in questo gioco perverso, ne fanno parte.
Ma c’è dell’altro. Il film maschera la sua tesi sulla follia attraverso subliminali stilemi, perlopiù horror, pur non manifestandosi mai in maniera esplicita. Come nel rapporto con il bambino, figlio della reclusa, unico a voler accorciare le distanze con il mostro, attraverso un canale di comunicazione referenziale tipico del genere. E soprattutto, il rapporto di potere tra “la voce” e le coscienze dei cosiddetti sani, si alimenta delle paure di questi ultimi, in una sorta di “Bababouk” rovesciato e terribilmente realistico.
Vi sono poi numerosissime allusioni tipiche di un genere così profondamente legato a figure tradizionali come la porta chiusa, la stanza proibita, il fantasma che si manifesta solo in voce o con rumori improvvisi. E, ovviamente, la follia che pervade tutti i protagonisti in maniera originale e improvvisa. E su tutto, quella particolare natura del “Mostro”, tanto più repellente quanto meno visibile allo spettatore, come una sorta di “Dio nascosto” pascaliano in chiave estrema e, ovviamente, mai consolatrice.
Nel notevole film turco “Inflame” (“Kaygi”, presentato anch’esso alla Berlinale 2017) di Ceylan Özgün Özçelik, è la casa come organismo vivente e pensante a far pensare ad uno dei temi più ricorrenti di cinema e letteratura horror. Ma il motivo più interessante del film è sicuramente l’approccio allegorico finalizzato ad una critica sociale sferzante e originalissima. Sotto accusa sono la rimozione storica e il controllo dei media che determinano una sempre più evidente rifrazione della realtà. E la follia allucinata della protagonista (chiara la citazione di “Repulsion” sia per l’ambientazione claustrofobica che per le inquadrature distorte e spesso in soggettiva) è lo specchio di una verità dissonante che non deve emergere.
E così le tragedie di un paese, sopite e silenziate, si palesano in manifestazioni visionarie sempre più spaventose determinando la clausura della giovane che diventa medium tra passato e presente, ma proprio per questo si dissocia progressivamente dalla sua quotidianità.
Tra i mondi paralleli di “Matrix” e la realtà imposte dal sistema come “migliore dei mondi” di “The bothersome men”, l’attinenza più evidente è invece con l’iraniano “Under the Shadow”, horror movie scritto e diretto dall’esordiente Babak Anvari. Qui i fantasmi della Storia (il film è ambientato in una spettrale città bombardata dall’aeronautica iraqena) prendono le forme di uno spettro in salsa giapponese, ma quel che più ricorda “Inflame” è la progressiva paranoia della protagonista alle prese con la malattia di un intero Paese. Allo stesso modo, il bel film della giovane Ceylan Özgün Özçelik, sorprende per il coraggio è il notevole impatto e, nonostante il troppo indugiare soprattutto nella seconda parte della vicenda, ha il pregio di uscire dagli schemi di una cinematografia importante e sempre in crescita.