Rivedere Il disco volante di Tinto Brass è stata una interessante riscoperta da molti punti di vista. Integrare la visione del più importante film ufologico italiano (così è) con l’intervista al maestro Brass qui pubblicata ha certamente influito nel nostro giudizio, che rimane però ancorato a convinzioni oggettive.
Le solite recensioni affrettate della critica di quegli anni, con poche eccezioni pregiudiziale nei confronti del genere fantascientifico, aveva, se non stroncato, abbassato di molto la valutazione del film. Distribuito a Natale, con tutte le aspettative del caso, nonostante la presenza di un tris d’assi nel cast – Monica Vitti, Silvana Mangano e, soprattutto, Alberto Sordi, Il Disco Volante era stato uno dei pochi flop commerciali dell’Albertone nazionale. Ciò non toglie che la modernità del testo e l’accuratezza filologica dei riferimenti ufologici siano ancor oggi di assoluto rilievo, così come la sferzante satira che costituisce il motivo caratterizzante della pellicola. L’ufologia in Italia, trattata generalmente dal genere fantascientifico (Lado, Margheriti, Francisci, Brescia sono solo alcuni dei registi italiani di riferimento), comico (con i protagonisti di sempre da Totò a Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, fino al Pippo Franco di Ciao Marziano) e con poche soluzioni più raffinate come il doppio Sceriffo extraterrestre di Bud Spencer, si scopre qui tema allegorico, pretesto di analisi sociale acuta e non di prima, facile lettura.
In quanto alla presenza di Sordi, la scelta di affidargli ben quattro personaggi diversi (ricorda da vicino le performance di Peter Sellers in Lolita del 1963 e nel Dottor Stanamore di Stanley Kubrick di qualche anno più tardi) rappresenta un motivo non comune del cinema italiano, più portato alla struttura ad episodi tipica della commedia all’italiana firmata Scola, Risi, Monicelli e altri.
Ma andiamo per ordine e analizziamo alcuni aspetti di questa deliziosa “anomalia” del cinema italiano.
«Tinto ha detto Asolo»…
(Silvana Mangano)
… e Asolo sia! La scelta di ambientare una storia così grottesca in un paese del Veneto, nel cuore contadino (e cattolico) del profondo Nord Est, non è di poco conto. Le dinamiche sociali sono “reali” e non caricaturali (per fare un film del genere poteva bastare Cinecittà pensarono in molti), con l’utilizzo di abitanti locali che non recitano ma esprimono semplicemente la loro cultura. Il tutto potenziato da inquadrature iniziali che esplicitano la dichiarazione di stampo “verista” delle ambientazioni, con due giornalisti Rai tra i più famosi dell’epoca che interpretando se stessi descrivono antropologicamente e con rara ferocia la comunità locale. Piero Mazzarella, autore di documentari e servizi, star della migliore Televisione pubblica educativa di sempre e il commentatore cinematografico per eccellenza Lello Bersani, voce storica di quarant’anni di TG in bianco e nero, appaiono in prima persona e con le loro domande, i loro impietosi silenzi e le loro tipiche smorfie sarcastiche smontano in pochi istanti le ipocrisie borghesi e la sottocultura contadina del territorio. La regia è nervosa, non convenzionale e contribuisce ad indagare gli stupefacenti volti dell’Italia del boom.
Le prime testimonianze che aprono Il disco volante parlano di luci ed entità extraterrestri. Le tracce a terra – tre cerchi di erba bruciata – ricordano in tutto e per tutto il caso delle false tracce del 1988, a Costeggiola, paesino in provincia di Verona che aveva reagito, vent’anni dopo, nell’identico modo: chi crede, chi sorride e chi fa spallucce, praticamente le reazioni di sempre, per una volta assolutamente verosimili e niente affatto caricaturali. Per queste ragioni si può tranquillamente parlare di pionieristico docufilm, almeno per quanto riguarda la prima macrosequenza.
«A me qualcuno ha detto che Spielberg ha visto Il disco volante… »
(Tinto Brass)
…non so quando come e dove. E in effetti Il disco volante può essere visto come una sorta di Incontri ravvicinati del terzo tipo nostrano, in chiave satirica è chiaro, ma con le stessi intenti: interpretazione soggettiva dell’avvistamento, percezione del diverso e successive conseguenze sociali dell’esperienza.
Alcune soluzioni in ET farebbero supporre la conoscenza del film di Brass da parte di Steven Spielberg; pensiamo al ballo in maschera. L’alieno, pur rimanendo nei suoi panni “marziani”, viene scambiato per un normale ospite travestito (alla stregua del piccolo extraterrestre nel mezzo della festa di Halloween). Poco prima Silvana Mangano, trasportando sull’Apecar il suo “bottino” attraverso le campagne venete, lo aveva nascosto con una coperta esattamente come veniva coperto ET sulla bicicletta del suo piccolo amico terrestre. Per non parlare dello stato angoscioso che pervade l’animo dei testimoni, cambiandone per sempre la percezione della realtà e del quotidiano nonché i loro rapporti con famiglia e comunità di appartenenza. Insomma, qualcosa in più di semplici coincidenze che aggiungono spessore alla originalissima opera di Tinto Brass.
«Io non voglio farne un testo canonico, una lettura obbligata. Però…»
(Tinto Brass)
… però questi stimoli c’erano tutti. Già, e stimoli non da tutti per l’epoca. Alcuni soloni del paese parlano esplicitamente di influssi freudiani e junghiani.
In effetti l’ipotesi junghiana della proiezione psichica sembra più pertinente proprio per la diversa percezione dell’avvistamento da parte di protagonisti di differenti estrazioni. Ed ecco che il prete avvista un disco con un tabernacolo sulla sommità; il telegrafista ne nota antenne e parabole mentre l’integerrimo carabiniere calabro, forse represso (il suo imbarazzo di fronte alle manifestazioni sessualmente esplicite della villa della contessa ne sarà la riprova), viene attratto più che altro dalla presenza di una sexy-aliena che si confonde in un gregge di pecore.
Questa manifestazione visiva differente da persona a persona, a seconda del loro livello culturale, si esplica anche – trasversalmente – alle diverse classi sociali rappresentate nel film, talmente riconoscibili e a tutto tondo da far pensare inevitabilmente ad un preciso schema allegorico.
Nobili e contadini, sacerdoti e intellettuali laici vivono in un gioco di doppi la medesima esperienza e ne fanno derivare un comportamento coerente con la loro posizione sociale. Il vero senso morale del film, visto come cuore simbolico mascherato da commedia e filtrante inquietudine sta proprio nella “amoralità” (sottolineo, assenza di morale e non immoralità) di tutte le componenti di quel microcosmo interpretato dai “quattro” Sordi e dalla contadina (Silvana Mangano).
Preti pavidi e patetici, nobilastri vuoti ed annoiati che utilizzano l’alieno per squallide curiosità sessuali (per non parlare del cinica grettezza della contessa madre) e intellettuali falliti che svendono la loro cultura per infrattarsi con l’amante («piantala con ste poesie, dime porca che me piase…»). Nemmeno la contadina, con sei figli – inetti – rancorosa e povera in canna, redime la sua classe di riferimento pensando a monetizzare vendendo il marziano al conte per una pellicccia, un’automobile e qualche gioiello.
In conclusione tutti, nessuno escluso, riescono ad avere uno scatto intellettuale che li affranchi dal provincialismo e dallo squallore della vita quotidiana. Abituati alla etica neorealista dove una società funziona se le sue parti collaborano (vedi per esempio Roma città aperta) e dove i bambini costituiscono una speranza per il futuro (come in Ladri di biciclette fra i tanti) la lettura grottesca di Tinto Brass colpisce per la sua tragica lezione: quella provincia, quella realtà, oggi diremmo quel “profondo Nord” è ben lontano dal cosiddetto traino culturale di quell’Italia del progresso e, quel che è peggio, temiamo che il film in cinquant’anni non sia invecchiato un granché.