Prima di recensire lo spettacolo di Roberto Benigni su “I dieci comandamenti” mi sono chiesto come avrei potuto evitare di ripetermi rispetto alle migliaia di parole spese per raccontarlo su web, giornali e tv. E soprattutto come non far coincidere il commento con uno schieramento ideologico. Il Roberto nazionale infatti ha da sempre spaccato l’Italia tra seguaci mistici, quasi fosse un santo laico -forse l’ultimo della sinistra- e schiere di denigratori per partito preso, basti pensare alle polemiche capziose di Emilio Fede e Giuliano Ferrara il giorno dopo la consegna dell’Oscar per “La vita è bella”. Gli stessi milioni di spettatori che Roberto Benigni porta periodicamente davanti allo schermo controbilanciano probabilmente gli altrettanti che cambiano istintivamente canale, in un rapporto con il pubblico di amore odio proprio dei grandi showman di casa nostra come negli ultimi decenni Pippo Baudo o Adriano Celentano.
Detto questo, parlare delle Tavole della Legge è argomento talmente delicato da costituire un’ulteriore difficoltà per la critica che fino ad ora lo aveva appoggiato: perché storcere il naso adesso, proprio quando parla di religione in termini rispettosi? Così, sebbene l’obiezione sia priva di senso, anche perché così nessuno dovrebbe più parlare di nulla, è comprensibile la difficoltà di trovare una chiave critica imparziale.
Per questo motivo sono andato a ricercare nella memoria l’idea archetipica di Roberto Benigni, che da sempre viene considerato maschera indivisibile tra uomo e personaggio. Perché Benigni mi è sempre piaciuto? I primi ricordi risalgono ai primi Anni 70, con quel Cioni Mario, protagonista straccione della leggendaria Tele Vacca; era un contadino illetterato, parlava per monosillabi ed era immerso in paglia e letame. Viveva in una stalla e il suo aspetto era assolutamente stralunato, tipico di un inetto; la sua “saggezza” constava proprio nei suoi limiti intellettuali in una versione televisiva del proverbio “scarpe grosse, cervello fino”. Il secondo grande momento catodico di Roberto Benigni appartiene alla storica trasmissione “L’altra domenica”. Qui, con il grande puparo Renzo Arbore, si era inventato l’inedito personaggio del critico cinematografico. Il comico interpretava un giornalista che doveva recensire l’ultimo film uscito nelle sale. Purtroppo a metà della critica, ci si rendeva conto che non lo aveva mai visto, e millantando argomentazioni assurde, si dimostrava un totale incompetente di cinema rappresentando una grande caricatura dell’intellettuale, sempre alle prese con parole vacue: ancora una volta la surreale ignoranza del personaggio lo aveva reso una maschera indimenticabile.
Poi, andando a ritroso nella memoria, ricordo Benigni nel suo meraviglioso spettacolo che lo aveva portato nelle feste dell’Unità di tutto il Paese. In quell’indimenticabile “Tutto Benigni” (uno dei primi esempi di pirateria su audiocassetta su scala nazionale, poi reso film da Giovanni Bertolucci, lo stesso di “Berlinguer ti voglio bene”), non solo il comico citava Dio come un’entità astratta, che forse un giorno avremmo scoperto chiamarsi Manitù (“a quel punto gli direi che ho letto tutto Tex”), ma aveva in un formidabile pezzo satirico, peraltro mai offensivo, scardinato il linguaggio stesso della creazione. Mi riferisco ovviamente al proverbiale incontro fra Caino/o e Abele/e, due fratelli maschi dai quali incomprensibilmente avrebbe dovuto avere inizio la stirpe umana.
Un altro ricordo, mi riporta in mente il Benigni dei primordi, mentre passa avanti e indietro dalla finestra di San Pietro provocando in alternanza gli applausi di una folla delirante al cospetto di colui che sembrava essere il Papa (da “Il Pap’occhio”). E che dire del neologismo creato dal pulcinella toscano sul palco di Sanremo 1980, quel suo Woitilaccio che tanto fece infuriare preti, massaie, benpensanti e salottieri d’Italia, ovvero coloro che da sempre sono la maggioranza stolta e bigotta, ventre molle del nostro Bel Paese?
Si arriva poi alla sua esemplare carriera cinematografica. Dopo le comparsate iniziali e una serie di film di successo al botteghino che ne avevano accresciuto la fama a dismisura, finalmente è arrivato l’Oscar. Un premio inaspettato, forse al di là dei suoi meriti, ma comunque guadagnato con la pazienza e l’abilità di un grande personaggio più che di un grande attore. Con i film milionari, ricordiamo in particolare “Non ci resta che piangere”, Benigni aveva compiuto quello che definiremo il suo primo grande balzo. Da personaggio povero in canna e senza una Lira, il comico toscano si trasforma in icona nazional-popolare, l’ospite per eccellenza di serate di gala da Sanremo in giù. Si comincia a polemizzare sui suoi compensi stellari, ma sempre ben ripagati da un audience eccezionale. Il passo è compiuto: dal letame di Cioni Mario alle montagne di denaro che il fenomeno mediatico del suo personaggio riusciva a generare. L’effetto Mida era ufficialmente iniziato.
Il secondo grande balzo si riferisce invece alla sua originaria inettitudine nei confronti del cinema. Il personaggio che un tempo dimostrava una totale capacità di comprendere la settima arte, diventa all’improvviso l’Italiano che vince l’Oscar. Ancora una volta il personaggio archetipico viene rovesciato dal nuovo “Robberto” (cit. Sophia Loren) in uno scambio di ruoli che dal rappresentazione del completo inetto -cinematograficamente parlando- lo porta alla massima ribalta internazionale.
Continuando ad analizzare questa straordinaria metamorfosi mediatica, il comico comincia a dissociarsi dai suoi primi personaggi anche sul lato culturale. Iniziano le serate dedicate alla grande letteratura e la “Commedia” di Dante diventa il cavallo di battaglia dell’ultimo decennio. E persino la lettura “colta” dell’Inno di Mameli gli conferisce una dimensione patriottica diametralmente opposta a quella con cui la celebre gag del monumento del Milite Ignoto in “Tu mi turbi” lo aveva connotato negli anni precedenti.
Da povero a ricco, da ignorante a star del cinema e intellettuale, da iconoclasta a patriota. Niente male per una carriera nata in una stalla. Ma la vera sfida sembrava essere la più ardua e doveva ancora attuarsi. Da bestemmiatore a predicatore: chi l’avrebbe mai potuto immaginare. Dire che Benigni fosse un bestemmiatore è di sicuro una forzatura, ma se in molti ricorderanno le già citate performance degli spettacoli teatrali, forse in pochi ricorderanno che in “Tu mi turbi” uno dei suoi film più belli e meno noti, il nostro eroe si divertiva a massacrare con il suo tipico stile Vangeli, comandamenti e Dio in persona.
Se di bestemmia si vuol parlare, senza incorrere in malintesi lessicali, sarà opportuno riferirsi alla distinzione che se ne fa sul vocabolario online della Treccani. Espressione ingiuriosa e irriverente contro Dio e i santi e le cose sacre. La teologia cattolica distingue una b. ereticale, quando contenga cose contrarie alla fede, una b. semplice, costituita da mera ingiuria, una b. imperativa, se esprima desiderio di un male a Dio; e inoltre una b. immediata, rivolta a Dio direttamente, e mediata, contro la Vergine, i santi, le cose sacre.
Credo sia interessante rapportare la bestemmia cosiddetta “ereticale” al suo repertorio di almeno due decenni. “Pap’occhio” e “Tutto Benigni” a parte, in “Tu mi turbi” (1983) vengono attribuite a Dio amanti, un fisico asciutto e un creatore superiore dal nome di Buc(o). Ci sembra francamente abbastanza, specie se accompagnato da una rilettura del nuovo testamento in cui è il pastore di nome Benigno (innamorato di Maria) a suggerire le future parabole del Vangelo, sotto forma di fiabe strampalate, al piccolo Gesù cui fa da temporaneo baby sitter. E a tal proposito saremmo sommessamente curiosi di ascoltare il parere dei valenti teologi che plaudono all’ultimo spettacolo del prodigo Roberto o quello del simpaticissimo Papa Francesco che non ha mancato di fare i complimenti al cantastorie con la ormai proverbiale telefonata di fine serata.
Quel che è certo è che, ben prima che la Chiesa lo facesse proprio, un misticismo fondamentalmente rispettoso aveva sempre caratterizzato la ricerca di una qual forma di divino da parte del comico, come la neve di “Tu mi turbi” che diventa parossistica prova ontologica dell’esistenza di Dio. Ma bisogna rilevare che da qui a essere testimone di fede, come nel suo ultimo spettacolo, di spazio ne ha colmato parecchio, almeno riguardo al precetto di non nominare Dio invano…
E veniamo infine ai suddetti “Comandamenti”.
Quel che stupisce dello spettacolo non è il trasporto, direi afflato mistico, verso il divino; non è la personalizzazione del Creatore in una sorta di superficiale antropomorfizzazione che rievoca fredde serate invernali nelle stanze dell’oratorio a studiare il catechismo a fumetti per noi fanciulli; tantomeno la lettura rigida, ferrea, letterale di un testo che viene spacciato, fuori di metafora, come il dettato di un Stephen King qualunque ad un fantomatico ghost-writer. Ciò che lascia attoniti è il percorso di ricostruzione iconica che Roberto Benigni ha fatto di sé, con un’invidiabile pazienza, tenacia e determinazione. Un cammino di redenzione lungo ed esemplare che sarebbe riduttivo chiamare conversione. Per convertirsi basta una notte e di certo la programmazione non c’entra: qui siamo di fronte a un progetto più complesso che è arrivato a quasi a conclusione.
Già, quasi. Ricordando la gag con Raffaella Carrà su Rai Uno in prima serata (1991) dove l’organo sessuale femminile veniva definito in almeno una dozzina di modi, credo ci sia solo un modo per rimediare semioticamente al misfatto. Prevedo pertanto, entro un paio di anni al massimo, la rilettura in prosa dell’”Ave Maria”: quale modo migliore per espiare se non rendere omaggio alla verginità della Santa Maria Madre in persona? Ai posteri l’ardua sentenza e intanto, caro Roberto, continua così: facce ride!