Satyajit Ray non era solo un grande regista: rappresentava l’anima stessa di una nazione, pur estesa ed eterogenea, come l’India. A partire dall’influenza che su di lui ebbe il Nobel per la letteratura Rabindranath Tagore, amico di famiglia, che si era distinto per la sua poetica a favore dei diritti dei più deboli e dell’emancipazione femminile; e per il suo universo popolato da antieroi onesti e disinteressati destinati ineluttabilmente alla sconfitta. Tratti distintivi che Ray fece suoi, attraverso uno sguardo sommesso ma potente, di un’umanità composta da individui emblematici di un intero Paese.
Ma la poetica del regista è debitrice anche di maestri europei come Jean Renoir e Vittorio De Sica che gli permisero di affinare il suo cinema, fino a portarlo alla ribalta dei più importanti festival internazionali.
Il cinema Massimo gli dedica un’approfondita retrospettiva; imperdibile non solo per lo spessore di uno dei più grandi cineasti della storia, ma anche per la possibilità di (ri)vedere alcuni dei suoi film più celebri in versione restaurata. Si parte stasera (replica venerdì 6 e sabato 28) alle 16 con Il lamento del sentiero (1955): esordio, nonché primo capitolo del celebre trittico dedicato ad Apu che diventò ben presto iconica testimonianza di vita della società bengalese. Con la “trilogia di Apu” (seguono L’Invitto alle 18.15 e Il Mondo di Apu, mercoledì alle 16) si percepiscono già gli stilemi di un regista, votato a un malinconico realismo, che lo accompagneranno nelle numerose opere successive.
Completano la rassegna: La grande città (1963) dove una giovane donna lotta contro i pregiudizi di fronte alla volontà di cercarsi un lavoro. La moglie sola (1964), tratto da uno struggente racconto di Tagore, che parte dalla condizione di una sposa costretta a trascorrere il tempo da sola nelle mura domestiche. Il codardo (1965), su uno sceneggiatore di Calcutta che rincontra la sua ex amante. E Nayak (1966) che si concentra sulla psicologia di un attore durante un viaggio in treno tra Calcutta a New Delhi.