Se negli ultimi anni la riproducibilità tecnica del digitale ci ha allontanato dall’esperienza tattile delle vecchie foto di famiglia, l’accumulazione visiva cui la mostra di DinoMingozzi ci espone è fin da subito emotivamente coinvolgente.
Le sue foto-cartoline ci riportano mentalmente ad almeno due generazioni fa, quando si usava stampare il retro delle foto per permetterne la spedizione postale, e gli interventi grafici, graffitici direi, che ne sfregiano le figure eteree e senza nome in seppiato e bianco nero, provocano, disturbano e toccano corde poco note e inaspettate. Forse per la mai celata superstizione per cui un ritratto fotografico cattura l’anima stessa del soggetto, o più semplicemente perché tradizionalmente un ritratto fotografico è la nostra assicurazione sulla vita oltre la morte, siamo tutti più o meno inconsapevolmente rispettosi per le sacre icone di famiglia ed è su questo che la poetica dell’artista ferrarese si manifesta in tutta la sua sferzante ironia.
Immagini di bambini, mamme, nonni, vengono sfregiate da tratti di pennarello nero che ne correggono il volto con particolari osceni che ricordano l’irrispettosa pratica dialettica medievale dello sghignazzo. L’operazione esplicitamente iconoclasta si manifesta con piccoli decoupage, amputazioni, simboli di costrizione che con pochi tratti scarnificano l’idea stessa di famiglia, deformandone i connotati tradizionali imposti dalla cultura cattolica ma non solo. La ipocrisia condivisa da tutte le comunità che definisce nella famiglia tratti di ordine morale e formativo, viene aggredita e frantumata con pochi segni ben assestati che non risparmiano giovani e vecchi, malati e paralitici.
Le ossessioni di Mingozzi rimandano a forme artistiche trasversali; nella fotografia sono tangibili, almeno a livello meramente visivo, i riferimenti a Sadek e Witkin, e nella ironica destrutturazione dei corpi vengono in mente  le grottesche animazioni di Terry Gilliam nelle transizioni del “Flying cyrcus”.
Ma è soprattutto nel cinema che si possono cercare temi ricorrenti e riconoscibili che trasformano le foto in fotogrammi: pensiamo alle svariate rappresentazioni del doppio con fratellini “kubrickiani” sventrati o collegati da un fosco legame telepatico. O alle influenze orrorifiche di impronta spagnola -che fanno pensare alle macabre foto di “The others”- che fissano i cadaveri a fianco della loro famiglia, in posa per l’ultima volta (descritti nella fenomenale raccolta di Stanley Burns “Sleeping Beauty”). E più in generale, se non dal punto di vista delle immagini, la critica severa alla famiglia-prigione trova riscontro in alcuni registi giapponesi di ultima generazione, come Sion Sono e Miike Takeshi. Nell’ideale ballata macabra che è la visione della mostra alla galleria Weber&Weber è Luis Bunuel ad affiorare alla mente con prepotenza; non solo quello surrealista e perverso che nel primo periodo avanguardista si affianca a Dalì (quante analogie con la Gioconda baffuta di duchamp) né quello macabro e melò della fase messicana, ma soprattutto il Genio dalle visioni oniriche e dissacranti su borghesia (“L’angelo sterminatore”), famiglia e religione: si pensi in particolare a “Viridiana”,  in cui la messa in scena immorale di un gruppo di straccioni a tavola replica, deformandola semanticamente, l’ultima cena di Leonardo, smantellandone in un fermo immagine il mistificante potere sacrale dell’immagine. Senza tema di paragoni irrispettosi, è quanto di più vicino all’operazione perfettamente riuscita e, in prospettiva replicabile, del giovane “icono-writer” Dino Mingozzi.

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