Flavio Bucci davanti al Museo Nazionale del Cinema della “sua” Torino gLocal Film Festival 7, marzo 2018
Il corpo è l’anima di un attore. E Flavio Bucci è uno dei corpi più apprezzati del cinema italiano. Lo aveva capito subito Elio Petri che lo aveva fatto esordire ne La classe operaia va in paradiso (1971), facendolo duettare con l’immenso Gian Maria Volontè nei panni di un collega. Petri ne era rimasto affascinato; tanto da offrirgli la parte da protagonista nel successivo La proprietà non è più un furto (1973). Qui è lo stesso regista romano a conferire all’attore una fisicità grottesca, ben oltre i normali canoni realistici. In una celebre sequenza lo fa perfino dissezionare idealmente dal macellaio Ugo Tognazzi che lo trasforma in pura carne, distinguendone i pezzi come in un bovino.
Petri amava i grandi attori. Li considerava come pupi nelle sue tragedie sociali e loro, da lui, si lasciavano manipolare liberamente. Gian Maria, l’eletto. Salvo Randone, il padre putativo. E qui il giovane Bucci, guidato con fili invisibili in un viaggio allegorico alla ricerca dello spirito nefasto del capitalismo con le sue leggi, le sue tirannie e i contrappassi. Il ragionier Total è un nevrotico cassiere che diventa allergico al denaro pur essendone dipendente. Si gratta continuamente, si muove a scatti, come in un balletto meccanico, e i movimenti impercettibili del volto denotano la lucida follia di un consumatore frustrato. In questo senso il suo monologo iniziale è da storia del cinema. Primo piano, occhi grandi e vibrazioni irregolari ne scolpiscono una maschera nervosa e caricaturale. E, su quell’incipit fotografato bergmanianamente, tutti i più grandi registi del Paese gli avrebbero ritagliato almeno un cameo nei 50 anni successivi.
Non solo piccoli ruoli, certo. Nel 1975 gira un altro film da protagonista. Aldo Lado lo dirige ne L’ultimo treno della notte dove interpreta il tossico Blackie, uno dei personaggi più malsani della sua carriera. Il film è talmente realistico da obbligare la censura al divieto ai minori di 18 anni e in alcuni Paesi verrà addirittura bandito. Poi altre parti, minori ma memorabili, nei due anni successivi. In Quelle strane occasioni lavora a fianco di Paolo Villaggio, in un episodio addirittura ripudiato da Nanny Loy; Dario Argento invece lo mette a fianco di Alida Valli nel suo ritorno torinese di Suspiria, uno dei cult del regista. Gli dà la parte di un non vedente, degno della fantasia di Luis Buñuel; morirà sbranato dal suo cane guida e la sua carne stavolta non sarà per nulla metaforica.
E si arriva al 1977. è l’anno della sua ribalta, la stagione che ne fisserà per il grande pubblico, e in via definitiva, i tratti distintivi. Ligabue sbarca in Rai ed è subito Bucci-mania. Quel Van Gogh all’Italiana catalizza l’attenzione del pubblico televisivo e le performance dinoccolate del pittore folle della Bassa Padana diventano argomento del giorno. Corpo, ma anche voce. Stridula, irregolare e a tratti nervosa, ma sempre perfettamente modulata; con Ligabue l’attore continua ad ampliare la gamma delle sue potenzialità vocali tanto da affiancare alla professione di attore quella di doppiatore. Sua la voce di John Travolta, alias Tony Manero ne La febbre del sabato sera. Poi di Stallone in La banda dei fiori di pesco e di Depardieu in L’ultima donna. Ma suo è anche il doppiaggio di Potsie in Happy Days e di Luke, il cugino del biondo Bo di Hazzard, due serie tv da culto che hanno costruito i miti pop di un’intera generazione e che ne testimoniano la versatilità.
I film si susseguono a ritmo sostenuto; titoli noti e meno noti, ma sempre con il suo inconfondibile tratto. E gli anni Ottanta sono ancora generosi per l’ormai affermato attore torinese. Fino al 1985 prende parte a progetti importanti al cinema e in tv. Come Maledetti vi amerò, l’esordio di Marco Tullio Giordana (1980) e Uomini e no, di Valentino Orsini (1981), con cui aveva già lavorato ne L’amante dell’Orsa Maggiore nel 1972. Tratto dall’omonimo romanzo di Elio Vittorini, vi interpreta la parte di un personaggio sofferto e sfaccettato. Con una compostezza formidabile incarna il personaggio di Enne2, un partigiano che si distingue per le sue riflessioni psicologiche e la sua finezza intellettuale. Anche in questo ruolo Bucci si contraddistingue per la fisicità, ingigantita dal suo iconico cappotto bianco, ma gestita in maniera controllata e discreta. Con Il marchese del Grillo di Mario Monicelli (1981) invece torna alla sua anima grottesca. La sequenza della ghigliottina è memorabile e il rispetto che gli porta Alberto Sordi nelle vesti del Marchese sembra coincidere, idealmente, con quello che si riserva a un grande attore. Pochi anni dopo rieccolo con Monicelli ne Le due vite di Mattia Pascal (1985); poi nella parte del commissario Ingravallo in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, miniserie Rai in quattro episodi, con la regia di Piero Schivazappa in cui Bucci torna mattatore in prima serata (1983).
Le partecipazioni a film e sceneggiati si fanno sempre più numerose. L’attore lavora in progetti più o meno di successo, ma con la costante certezza che il suo ruolo non passa mai inosservato. Negli anni tra il 1997 e il 2007 prende parte a una ventina di film, nella media perfetta di un ruolo all’anno. Ma è la partecipazione a progetti televisivi, straordinariamente fitta, ad essere il segno che il volto di Bucci, anche se in ruoli secondari, rappresenta una sicurezza per i registi, e soprattutto un valore aggiunto per il pubblico.
Impossibile citarli tutti. Al cinema lo vediamo diretto da Luigi Magni (interpreta Erode in Secondo Ponzio Pilato nel 1987) e nei panni del gioielliere rapinato in Teste rasate, dramma sul fenomeno delle bande neonazi interpretato da Gianmarco Tognazzi. Con le due parti di Caterina va in città di Paolo Virzì e Il Divo, partecipa anche a due dei più importanti film italiani degli ultimi anni. Nel film di Sorrentino interpreta “fedelmente” Franco Evangelisti; del tutto a suo agio nella caricatura di una caricatura vivente, tale era, per chi si ricordasse gli Anni Ruggenti della Prima Repubblica, il fedelissimo Dc romano del Divo Andreotti.
Intanto in tv una parte per Bucci non manca mai. Da La Piovra di Damiano Damiani a Gli Angeli del potere, di Giorgio Albertazzi; ma l’attore non disdegna commedie né produzioni più sofisticate. Da sottolineare anche un piccolo ruolo nel kolossal nazional-popolare I promessi sposi nella versione Rai 2.0 di Salvatore Nocita, dopo quella storica di Sandro Bolchi del 1967. Versione controversa, secondo la critica del tempo, che aveva comunque avuto il merito di radunare in un cast tutto il meglio del parco attoriale italiano. Una curiosità: Bucci interpreta un poliziotto alla locanda della Luna Nuova e, anche solo per pochi ciak, torna a lavorare con il regista di Ligabue.
Il motivo del corpo con cui si può leggere tutta la carriera dell’attore è presente anche nei suoi ultimi lavori. Il Vangelo secondo Mattei di Antonio Andrisani e Pascal Zullino è un’interessante commedia ambientalista in cui le riflessioni sulla questione aperta dell’estrazione di petrolio in Basilicata sono filtrate in chiave meta-cinematografica. Bucci interpreta un personaggio bislacco ma profondamente etico e coerente; un grande attore in disarmo, celebre per le sue piccole interpretazioni ma raramente protagonista assoluto. Non esattamente un film autobiografico, ma con molte assonanze; soprattutto riguardo al fare cinema vissuto come una missione più che un mestiere. Il suo ruolo è niente di meno che quello di Gesù. Un messia che incute rispetto con quella palandrana bianca e che viene utilizzato come oggetto/corpo iconico più che come un personaggio vero e proprio.
Nel documentario di Riccardo Zinna Flavio-Tributo a Flavio Bucci invece, viene fisicamente (tras)portato nei luoghi della sua vita e della carriera cinematografica. Come la casa in cui trascorse la giovinezza a Torino o quella del produttore di La proprietà non è più un furto. Il regista e la troupe lo accompagnano, letteralmente, in un viaggio alle radici della sua carriera. L’attore, a tratti, pare dolente e i suoi movimenti sono più rallentati di un tempo. Ma la fisicità comunica tutto il carisma che lo ha contraddistinto fin dal suo primo ciak. Il suo corpo, ancora oggi, impone rispetto; possente e austero, ricorda una vecchia quercia che non vuole smettere di crescere.
Intervista del 3 gennaio 2018
Flavio Bucci torna a casa. Tra il 7 e l’11 marzo 2018 sarà presidente della giuria Spazio Piemonte del gLocal Film Festival, dedicato al cinema prodotto o girato in regione. L’attore sarà l’ospite d’onore nella città in cui nacque nel 1947, in uno dei festival più caratterizzanti Torino e il Piemonte. Un cerchio che sembra chiudersi.
“Sono nato a Torino certo, ma da qualche parte dovevo pur farlo.” Bucci esordisce così. “La mia famiglia pugliese e molisana si era trasferita al nord, ma devo ammettere che i miei legami con la città si sono sbiaditi nel tempo”.
Di che natura fu la sua prima formazione in città? “Non ero uno studente modello, questo è certo. Tra una scuola di teatro privata e qualche anno di istituto alberghiero, sono arrivato fino all’età del militare.”
E il cinema? “Nel 1968 mi trasferii a Roma. In una pensione da 1.000 Lire al giorno. I Volontè erano in rapporti di amicizia con la mia famiglia e ovviamente mi recai da Gian Maria a Trastevere per incontrarlo”. Si racconta non fosse un uomo facile… “Lo definirei freddo. Mi ricevette in maniera sbrigativa. Ma l’incontro fu fondamentale e mi fece ottenere il mio primo ruolo in «La classe operaia va in Paradiso» nel 1971.”
Il film sarebbe stato girato in Piemonte, in una piccola fabbrica di ascensori di Novara; Elio Petri avrebbe così potuto apprezzare da vicino il giovane Flavio tanto da dargli la parte di Total, il protagonista de «La proprietà non è più un furto» due anni più tardi.
“Lo ammetto, qualcosa di buono deve averlo visto in me. Ed ebbi così la responsabilità di portare sullo schermo tutto il suo pensiero politico.” A partire dal suo strepitoso monologo iniziale sul capitalismo. “Sì, in quel discorso c’è tutto il cinema di Petri e sono orgoglioso di averlo raccontato”.
Flavio Bucci però è ricordato soprattutto per un ruolo “capestro” che gli diede popolarità eterna, costringendolo in un recinto dorato ma invalicabile. Quel «Ligabue» del 1977 è, e sarà, inarrivabile; ma alla stregua di «Dracula» per Christopher Lee, ne avrebbe influito per sempre la sua carriera.
Flavio Bucci ride di gusto: “Stia tranquillo. Non si aspetti lamentazioni o piagnistei né tantomeno rimpianti. La mia vita di attore è stata la migliore possibile. Sono felice di aver lavorato con i più grandi registi italiani e il ruolo di caratterista non mi sta per nulla stretto, anzi…”
Già, perché per fare il caratterista devi essere più bravo degli altri. In quella pillola d’interpretazione bisogna conoscere tutto dell’arte attoriale e la si deve svuotare tutta insieme. Come gli immensi Leopoldo Trieste e Salvo Randone che seppero ritagliarsi pezzi di storia del cinema legandosi prevalentemente a camei indimenticabili. “Lei mi accomuna a grandissimi nomi. Ma il cinema -continua Bucci- va preso con distacco e molta ironia.”
E a questo proposito nel suo ultimo «Il vangelo secondo Mattei» si parla di un attore che per la prima volta viene scelto come protagonista (addirittura nella parte di Gesù) dopo aver interpretato tante piccole parti in un’infinità di film. Quello che ne trapela è la passione per quest’arte; ma anche la coerenza e la responsabilità “etica” che deriva dal mestiere dell’attore.
“Non esageriamo. L’ironia, le ripeto, è la chiave cui mi sono sempre attenuto per navigare in questo mondo”.
Poi mi chiede se può chiudere raccontando un grande insegnamento ricevuto da uno dei suoi maestri, Mario Monicelli. “Quando mi chiamò per una parte ne Il «Marchese del Grillo», mi permisi di fargli notare che non conoscevo bene il romanesco. Sono meridionale e nato a Torino: come potrei fare? Lui mi guardò fisso e mi disse: Flavio, segui il mio consiglio; fai un po’ quel che cazzo ti pare.”
Grazie Flavio e arrivederci a marzo. Saremo lieti di ri-accoglierla come merita nella sua Torino.