La premessa è d’obbligo. Non sono esperto di spettacoli di magia. Le poche esperienze televisive, diradatesi negli anni, risalgono agli spettacoli della domenica pomeriggio di qualche decennio fa, dove imperversavano i vari Tony Binarelli, Alexander e nella fase decadente Giucas Casella. Ma Silvan rimaneva, e rimane tuttora, il re dei maghi, forse per la sua classe innata o più probabilmente per il suo essere icona immutabile nel tempo, perfettamente uguale a se stesso, forse da secoli. Ecco perché, con una curiosità mista a stima e voglia di ritorno all’infanzia, ho deciso di andare ad assistere al suo spettacolo di Grugliasco, a un passo da Torino.
Lo show si svolge in un tendone adibito a teatro che fin dall’ingresso contribuisce a immergere il numerosissimo pubblico (dagli 8 agli 80 anni) in un mondo surreale, tra il polveroso e il circense, ma certamente accogliente e adeguato. Quando le luci si spengono e Silvan appare come una visione al centro del palco incastrato nella sua proverbiale giacca squadrata, la sensazione è di incontrare una persona conosciuta da sempre e l’entusiasmo si sublima in un’atmosfera palpabile di nostalgia ed empatia. Per tutto lo spettacolo, si assisterà a una sbalorditiva esibizione one man show che racchiude la straordinaria carriera di un personaggio tra i più celebrati al mondo, a suo modo unico nel panorama dello spettacolo italiano.
Fatta salva la stupefacente capacità di tenuta per quasi due ore di numeri di altissimo livello, vorrei però focalizzare la mia attenzione sul contesto iconografico che circonda il mito di Silvan e che contribuisce in maniera decisiva alla sua iconizzazione. L’effige del mago più famoso d’Italia infatti prescinde dalla sua oggettiva grandezza conferendogli una notorietà quasi metafisica, come in pochi altri casi. Pensiamo al suo primo piano, al suo cappello a cilindro, alla sua bacchetta magica (oggetti che peraltro non utilizza più nei suoi spettacoli dando un chiaro messaggio di modernizzazione). E soprattutto ai suoi capelli neri e levigati, al sorriso, ai grandi polsini inamidati e al cerone che, quasi per eternalizzare proditoriamente il suo personaggio, aveva cominciato a usare con abbondanza già nelle sue prime apparizioni televisive.
La sua immagine/maschera che da sempre ricordiamo di aver visto sulle copertine dei libri e sulle custodie dei suoi giochi, pare sfidare il tempo ma non è solo questione di mera fisicità. Potendo osservare dal vivo le scenografie e gli oggetti di cui si avvale, ovviamente molto più appariscenti di quanto non si possa evincere da un numero televisivo, la prima sensazione è quella di una esplicita mescolanza di generi diversi; parlerei di un “kitsch consapevole” in quanto ricercato con attenzione quasi scientifica e per nulla casuale. Mi è di conforto il bell’articolo di Gillo Dorfles che descrive in maniera approfondita e storicamente inappuntabile l’origine del “cattivo gusto” che pervade il mondo dei maghi e dei prestigiatori di ogni tempo affermando, al termine di un interessantissimo excursus filologico, “Questi maghi hanno una caratteristica in comune: quella di essere dei veri e propri ricettacoli di cattivo gusto. Come c’è il Kitsch del grasso borghese, del pedante filologo, del generale a riposo, del concertista famoso, c’è dunque il Kitsch delle fattucchiere, dei sensitivi, dei mediconi. Il che non toglie che le eccezioni confermino la regola, anzi, quando un gusto non stantio primeggia tra i cultori di scienze occulte, quando queste si convertono davvero — come già sta accadendo altrove in Germania, in Inghilterra — in autentica Geisleswissenschaft, in seria ricerca scientifica, è logico che, accanto ad una maggior serietà delle ricerche, si verifichi anche una maggior aggiornatezza del gusto e dell’interesse artistico di chi le pratica.”
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Lo spettacolo inizia con la voce inconfondibile di Arnoldo Foà, uno dei più grandi attori di teatro di tutti i tempi, che introduce i presenti nel misterioso mondo della magia; subito seguito da cortine di fumo e da un balletto da varietà che si muove al ritmo di un unico verso che ripete in coro la parola magica “Simsalabim”. La “premessa drammatica” –che nel cinema definisce fin dalle prime inquadrature il patto con lo spettatore sul tono del film cui si sta per assistere- è quanto mai evidente. Cultura alta e bassa in un unico calderone, ovvero, non aspettatevi nessuna coerenza in quello che state per vedere.
E in effetti, la chiave di lettura sulla utilità di una così smaccata confusione di generi di uno spettacolo di illusionismo è tutta qui. Pensiamo a ciò che un prestigiatore si prefigge: confondere lo spettatore, togliergli ogni benché minima certezza razionale, spiazzarlo e, in qualche modo, destabilizzare la sua psiche. Per arrivare a tanto sono ovviamente necessari capacità teatrali, abilità tecniche e trucchi sensazionali. Ma tutto concorre al depistaggio percettivo cui lo spettatore viene sottoposto dall’inizio alla fine dello spettacolo, anche in un continuo bombardamento subliminale. L’accumulazione di segni che pervade il palco, tra antico Egitto, teatro da vaudeville, abbigliamento tra liberty e burlesque, allestimenti barocchi e oggettistica vittoriana di chiara origine “steampunk”, confondono, distraggono gli occhi e distolgono l’attenzione da appigli culturali più o meno noti. Come nel genere horror lo straniamento dello spettatore è la prima regola per creare stupore e terrore, fin dai tempi del “Dottor Caligari” con le sue storture espressionistiche segnate sui volti e sulle scenografie; ed è proprio quello che accade sul palco, nell’apparente caos semantico organizzato da Silvan, il grande mistificatore.
A conferma di ciò, in conclusione, vorrei soffermarmi brevemente sul manifesto che pubblicizza lo spettacolo di Silvan, e che rispecchia sinteticamente quanto espresso fin’ora oltre a citare l’iconografia classica dei manifesti del genere. Il mago, al centro del proprio universo, domina e governa demoni, donne-pantera, corpi tagliati, acqua e fuoco. Si scorge perfino una rassicurante inquadratura di Venezia, città mito in sé ma anche -ironia- città natale di Aldo Savoldello, alias Silvan (come Silvana Pampanini volle battezzarlo artisticamente). Il messaggio è ancora una volta esplicito: il prestigiatore è colui che ha pieno controllo dell’imperscrutabile universo che egli stesso ha creato: dominus assoluto, nulla gli può sfuggire, tantomeno lo spettatore, trascinato a forza al di là dei confini del razionale. E questo, Silvan, lo fa meglio di chiunque altro.