Con “Grand Budapest Hotel” Wes Anderson racconta una fiaba surreale, a tratti burtoniana, su 20 anni di storia europea –a metà tra le due guerre mondiali- dove l’albergo è lo spazio dei sogni, del passato da rimpiangere, delle vecchie, buone maniere perdute per sempre.
Il film si presenta fin da subito come lucida allegoria di uno Stato ideale rappresentato da un hotel in cui tutto funziona, e dove ognuno dà il massimo di sé, anche le classi sociali più basse. “Grand hotel Budapest” è luogo ideale di differenze oltre che utopico e malinconico “altrove”; nel contempo è feroce critica del potere sotto forma di dittatura, capitalismo e avidità, e in fin dei conti del nostro tempo.
Il film, divertente, caleidoscopico, a tratti spassoso, mostra le avventure rocambolesche di un portiere d’albergo e del suo fedele apprendista attraverso i quadri tipici della poetica di Anderson dove tutto si fa in scatola: auto, cuccette di treni, stanze, valige; e ancora teleferiche, confessionali, celle e persino bare. La vita di ogni personaggio è sempre incastonata tra quattro pareti, collegate da cunicoli, corridoi, scale e claustrofobici anfratti. E’ il colore a dare speranza alle esistenze, spesso meschine al di là della scintillante rappresentazione, in un geniale ed equilibrato impasto antitetico tra iperrealismo e finzione, degno di un Fellini in versione pop.
Anche il cast stellare, non sempre è scontato in progetti analoghi, partecipa alla grande festa visionaria con entusiasmo e autoironia. A partire da Ralph Finnies, degno del migliore Alec Guinness, che scherza sul suo britannico senso del dovere. E poi Keitel e Dafoe grotteschi e super cattivi. E senza dimenticare l’insolitamente perfido Adrien Brody a metà fra un ufficiale delle SS e una versione maschile di Crudelia Demon. Notevoli le interpretazioni femminili guidate dalla irriconoscibile e meravigliosamente eccessiva Tilda Swinton e di Saoirse Ronan che, concedeteci un ultimo momento di furore interpretativo, chiude il cerchio delle utopie, con quella sua voglia di Messico sulla guancia a rappresentare sul viso del più puro dei personaggi quell’isola di libertà e di scambio culturale più unica che rara che il paese sudamericano aveva rappresentato in quegli anni.