Vedere un film di Sion Sono è un’esperienza spesso elettrizzante, per come sa spiazzare e stordire con fantasmagorie sempre nuove e stimolanti. Ma la sensazione che più spesso mi lascia è il senso di incapacità di descriverne anche solo in parte la sua potenza espressiva. Per parlare di “Love and peace” potrei rifugiarmi nel citazionismo, ripescando nell’immaginario di Joe Dante, Ishiro Honda così come in alcune invenzioni archetipiche di Gondry (e il suo mister Merde che si rifugia nelle viscere di Tokyo) e molto più facilmente si potrebbe pensare all’universo di Toy Story e alle analogie di film come “L’anguilla”, “The Host”, A.I., o “Air Doll”, con le loro implicazioni di sostituzione affettiva spesso cariche di ostilità al capitalismo selvaggio. Ma la gara a chi coglie più citazioni questa volta non ha senso. Citare, di fronte a Sion Sono, sa di superato: puzza di inadeguatezza di fronte ad un cinema che va visto sotto il profilo di un linguaggio più complesso e strutturato in più piani semantici.
Ma vedere così “avanti”, per il prolifico regista ben noto ai Torinesi che da anni lo seguono al TFF, non significa abbandonare del tutto alcuni dei temi più politicamente classici e ricorrenti del cinema nipponico che, fin dal dopoguerra e a più riprese, è tornato ad occuparsi. Quel rapporto di soggezione culturale rispetto al suo -paradossi della Storia- migliore alleato è ancora una volta messo alla berlina (nel solco di Nagisa Oshima, Shoei Imamura, Tetsuji Takechi e molti altri) con un approccio innovativo, giovanile, pop, magniloquente, sprizzante luci, suoni colori.
Oggi ho visto un altro film di Sion Sono, e l'”altro cinema” (ed io) siamo un po’ più vecchi.
Fabrizio Dividi