Calvaire non è un horror ma un viaggio allucinato in non-luoghi popolati da comunità disperate e monosessuali. Il protagonista, un giovane e androgino cantante girovago, attraversa campagne irreali con il suo spettacolo tra case di riposo popolate da anziane ammiratrici, inquietanti e ambigue, e piazze di non ben precisati villaggi sperduti nella campagna. Quando il suo camper ha un guasto s’imbatte in vecchio albergatore che gradualmente gli conferisce il ruolo della sua ex compagna, sparita chissà quando e chissà dove, schiavizzandolo e relegandolo nella sua magione.
Il microcosmo malsano di folli e perversi personaggi che popolano il villaggio adiacente non è da meno e anche gli altri attribuiscono al giovane la personalità di Gloria, l’unica donna che abbia lasciato uno straccio di ricordo nella vita dei disperati bifolchi.
La carenza di amore genera mostri, pare voler affermare l’autore, e solo la proiezione di un simulacro affettivo può attenuare violenza e dolore. L’allegoria mistica –peraltro già presente nel titolo- si sublima nella crocifissione del povero cantante come estrema forma di adorazione che, come nel Cristianesimo, ha bisogno della sua vittima sacrificale per perpetrarsi; e meglio ancora se vittima e oggetto dell’adorazione coincidono nella stessa persona.
Un’ultima lettura riguarda certamente il ruolo stesso dell’artista che diventa gradualmente oggetto di desiderio, preda e vittima solo in quanto altro da sé, destinato per natura a soddisfare le migliori aspirazioni, ma anche le peggiori inclinazioni del prossimo.
Le ispirazioni tematiche e iconiche di questo particolarissimo film non mancano: dalla comunità nascosta dei “I cavalieri dalle lunghe ombre” alla contrapposizione natura/civiltà di “Un tranquillo week-end di paura”, senza dimenticare la violenza cieca di “Non aprite quella porta” e, con estremo rispetto, le atmosfere metafisiche e struggenti dei girovaghi raccontate da Bergman ne “Il volto”.