Ricordo che quando visitai il memorial di Auschwitz fui onorato di vedere le frasi di Primo Levi stampate a lettere cubitali sui pannelli del museo. Un riconoscimento planetario per un Torinese di eccellenza che aveva cercato di comunicare, per tutta la sua vita e con tutte le sue forze, l’ineffabilità della sofferenza procurata dall’olocausto.
In alcuni dei luoghi più significativi della Shoa, penso al campo di Dachau, o al museo dell’olocausto di Berlino, la soluzione che i curatori hanno immaginato è stata quella di procurare “disagio” nel visitatore, anche se solo per pochi istanti. A Dachau l’attraversamento delle camere a gas, non segnalate all’ingresso ma solo all’interno, avviene attraverso il doppio shock della sorpresa e di uno spazio così angusto da togliere letteralmente il fiato. A Berlino il disagio di trovarsi al fondo di un pozzo di cemento freddo e immerso nelle tenebre sa proiettare il visitatore nei bui inferi di un campo di concentramento più di ogni altro allestimento, libro o fotografia.
Al di là della strumentalizzazione, delle ideologie e delle politicizzazioni che continuano da decenni e su cui non intendo soffermarmi, trovo che il vagone piombato di fronte a Palazzo Madama sia tra le trovate più azzeccate di sempre. Anzi, per provocare maggior fastidio, avrebbe dovuto essere sistemato ancora più vicino agli ingressi. Lo “stridore” visivo, nella società d’oggi, è l’unica metafora universalmente comprensibile e l’assenza prospettica è un concetto disturbante che comunica senza bisogno di didascalia: insomma, un vagone arrugginito che ferisce uno dei luoghi più eleganti del Paese è il migliore sfregio simbolico che si poteva immaginare per evocare l’eccidio nazista.
Dimenticavo le ragioni dei bravi detrattori del kitsch architettonico. Che ne facciamo di quella facciata barocca posticcia di Palazzo Madama che copre la struttura del castello medievale preesistente? Tra quindici giorni la abbattiamo?
Pubblicato su “La Stampa” del 24/01/2015 ne “L’editoriale dei Lettori”, pag. 22