Contiene spoiler
True Detective puntata 2 si concentra sulle indagini dei due colleghi Martin Hart e Rustin Cohle. Se da un lato continuano le allusioni ai simboli sacri che pervadono lo schermo contribuendo gradualmente alla evoluzione di Rust (penso alla statua della Madonna, o alla chiesa semidistrutta che chiude la puntata in uno dei suoi finali in assoluto più maestosi), dall’altro si cominciano a evidenziare le differenze tra i due protagonisti.
La peculiarità di Rust è e sarà sempre la stessa: anticipare le mosse e la strategia dell’indagine lasciando al collega le mansioni più operative. Il gioco di ruolo del braccio e la mente è più volte esplicitato ma la differenza tra i due si manifesta sempre più sul piano spirituale, che su quello puramente attitudinale.
Rustin il “predestinato”, è fin dalle prime sequenze dotato di una sorta di terzo occhio. Da bravo profeta laico, come abbiamo visto messia in fieri, allena di continuo il suo sesto senso seguendo ispirazione e istinto, e la sua iper-percezione viene raccontata in fase di sceneggiatura con dettagli molto precisi. Tanto per cominciare, in questo episodio è protagonista di almeno tre i momenti lisergici, sempre improntati alla visione apocalittica. Le luci baluginanti di un primo sogno ad occhi aperti (6), saranno poi seguite da scie colorate in un’autostrada che diventa tunnel iperrealista(5). Ma è l’ultima a rivelarsi la visione più strutturata: i corvi a spirale (il simbolo che segna il corpo delle vittime) che abbandonano il campo di grano (ancora segni satanici) anticipano la visita alla chiesa semidistrutta e abbandonata. Il fuoco che l’ha sventrata e la natura selvaggia che la ri-possiede coprendola di frasche sono il chiaro segno di una guerra in corso: l’eterna battaglia tra bene e male è solo agli inizi e angeli e demoni, corvi e crocifissi, luci e oscurità si contendono apertamente l’eletto.
Che sia questione di saper vedere peraltro è ben chiaro, e la capacità di osservazione del tenente Cohle si rivela soprattutto nell’introspezione. Una costante auto-indagine, dai risvolti perfino più enigmatici di quella sull’assassino, si evince in particolare da una rilevante presenza di specchi in inquadrature apparentemente casuali (1). Ad esempio, con un rapidissimo montaggio i due vengono mostrati in scene familiari contrapposte. Il detective Rust fissa se stesso attraverso un piccolo specchio rotondo: al di là di ogni realismo dell’oggetto, di per sé assolutamente inutile, Rust si concentra nel guardarsi in un contrappunto infinito di riflessi in cui è proprio l’occhio a scrutare se stesso. Contemporaneamente, Martin sta ancora dormendo ed è la figlioletta a spalancarne la palpebra con le dita, quasi a determinarne l’incapacità congenita di osservazione, dopo aver spalancato le tende di casa per liberarlo dall’oscurità. (2–3-4).
Come se non bastasse, nella sequenza finale, è Rust a spostare le siepi cresciute sui murales del tempio diroccato scoprendone importanti indizi. Appare fin troppo naturale osservare in questa inquadratura come i due compagni siano in realtà molto distanti tra loro: uno guidato da una croce bianca e di fronte all’affresco rivelatore; l’altro, di spalle e con spessi occhiali neri che ne denotano la totale impotenza cognitiva.
Inoltre, fotografando quasi per caso una casa nel corso delle indagini, riuscirà addirittura a cambiare il futuro suo e di tutti i protagonisti coinvolti in una delle sue tante illuminazioni inconsapevoli che ne caratterizzano di continuo il personaggio. Lo sguardo soprannaturale continua a guidarlo, in un’oscurità sempre più fitta, e la spirale ossessiva del “Re Giallo” sembra segnarne ineluttabilmente il destino.