“Ultimatum alla Terra“, nella versione di Robert Wise del 1951, era stato uno dei primi casi in cui la fantascienza aveva dimostrato di poter far riflettere lo spettatore oltre che a stupirlo con gli effetti speciali.
Tra i migliori film fantastici del decennio (e tra i più significativi di quel mezzo secolo di cinema insieme a “Metropolis“, “L’invasione degli ultracorpi“, “Frankenstein” e a pochi altri), è il primo, vero film a tematica ufologica della storia, ma non basta. Il promettente regista, che non avrebbe abbandonato la SF negli anni successivi nonostante le sue importanti pellicole di successo (suoi l’imprescindibile “Andromeda” e “Star trek: the motion picture“), aveva dimostrato una notevole abilità affidando ad una storia apparentemente banale una inusuale profondità nei temi trattati: dall’ecologia al pacifismo, al confronto fede/scienza, passando dal potere mediatico a quello militare e politico.
Diventato negli anni oggetto di culto tra i cinefili che tuttora si pavoneggiano declamando la frase-slogan più famosa del film – ovviamente “Klaatu barada nikto“, esempio ante litteram del feticismo linguistico che avrebbe ossessionato i seguaci della lingua Klingon e perfetto esercizio di snobismo intellettuale fra gli amanti del genere – aveva poi mantenuto la sua notorietà attraverso svariate citazioni letterarie e visive grazie anche alla stupefacente inquadratura di Klaatu con alle spalle un levigato e futuribile robot, e, ancora più indietro, uno splendido disco volante a dir poco perfetto, icona per eccellenza dell’UFO in una delle sue rappresentazioni più riuscite, essenziale nelle forme, e tendente al sublime nella sua satinata bellezza.
Detto questo la domanda da porsi è: perché rifare “Ultimatum alla Terra” a quasi sessant’anni dall’originale e come aggiornarlo?
Proveremo a dare una risposta, cercando di evitare le insidie che una certa critica prevenuta porta in sé, che dichiara il “nuovo” sempre e comunque peggiore del vecchio salvo poi aver colto la poetica ricchezza del film di Wise con un imbarazzante ritardo di quasi cinquant’anni.
La crisi di idee a Hollywood si avverte già da qualche anno. Sono poche le sceneggiature originali che vengono proposte al grande pubblico, se si parla di grosse produzioni ovviamente, e sempre più spesso si ricorre al remakeper aggirare i rischi di produzione e per tranquillizzare il pubblico che frequenta le multisale. La fantascienza non fa eccezioni: rifacimenti (“La guerra dei mondi“, “L’ultimo uomo sulla Terra), sequel o l’ultima moda delprequel, e perfino (orrore) commistione di personaggi come “Alien vs Predator” o “Freddy vs Jason“, colpiscono anche un genere che ha sempre espresso implicitamente il “sentore comune” del momento.
Un genere che ha in qualche modo storicizzato, anticipandoli, temi come gli effetti di un progresso senza limiti, le invasioni di “altri” da “noi”, gli effetti delle radiazioni, i pericoli della Guerra Fredda e delle epidemie fino alle implicazioni sociologiche e psicanalitiche spielberghiane, la genetica “migliorista” di “Gattaca” e la spettacolarizzazione generalista degli universi di Lucas; oggi il concetto di Fantascienza per come lo abbiamo conosciuto è perlomeno in crisi creativa, o per meglio dire “di testimonianza” dei tempi.
Il ripercorrere maldestro e automatico di idee trite e ritrite, sono la spia di un esaurimento della poetica avanguardista che la SF non dovrebbe mai perdere, e ci ritroviamo ancora a riscoprire come moderne le interpretazioni futuribili di Asimov e delle sue leggi sulla robotica.
“Ultimatum alla Terra“, suo malgrado, si inserisce in questa realtà storica del cinema ma non si può dire nemmeno che sia un film del tutto sbagliato o che la buona fede degli autori sia in discussione. In una intervista al regista infatti si intravede una dichiarazione di stile che, per quanto criticabile, rimane tuttavia un ottimo punto di partenza per interpretare il film.
Il regista Scott Derrickson, ha immediatamente svelato la sua intenzione di distaccarsi dal modello originale, che condannava l’America della Guerra Fredda; inoltre, da grande appassionato di cinema, ha confessato di essere ossessionato dai remake, ed in particolare dal suo preferito, “Terrore dallo spazio profondo” di Philip Kaufman, rifacimento de “L’invasione degli ultracorpi” di Don Siegel.
Il regista ha dichiarato di aver realizzato un film ottimista, che esprime una grande fiducia nell’umanità senza rinunciare a denunciare un paese ossessionato dall’intervento militare, dalla guerra ad ogni costo e da un eccessivo moralismo.
“Abbiamo girato in un clima di speranza e di entusiasmo. Sapevamo che sarebbe accaduto qualcosa e sono felice che “Ultimatum alla Terra” arrivi nelle sale in questo momento storico fondamentale per gli Stati Uniti.“
Derrickson, che non voleva tradire il film originale, ha confessato di aver incontrato anni fa proprio Robert Wise, che gli avrebbe consigliato di esordire nella regia con un horror, il genere più completo e complesso.Derrickson gli ha dato retta, dirigendo, come primo film, “The Exorcism of Emily Rose“.
Questa conversazione per certi versi premonitrice, e la consapevolezza di avere a che fare con un mostro sacro, lo hanno spinto a mantenere inalterati alcuni elementi fondamentali, a cominciare da Gort, la gigantesca guardia del corpo robotica dell’alieno Klaatu.
Per conservare un’atmosfera vecchio stile, Derrickson ha inoltre preferito non strafare con gli effetti speciali, evitando anche di conferire all’alieno Klaatu un aspetto mostruoso e non umano. Per capire meglio il tono che il regista ha voluto dare al film sarà interessante analizzare acune sequenze, molto classiche nella costruzione e che dimostrano l’ottimismo a cui il regista fa cenno.
La sequenza dell’invasione è, come in tutti i film del genere, molto significativa e crediamo possa essere utile paragonarla ad un film come “Independence Day“, che pur nella sua esemplare superficialità aveva sbancato al botteghino facendo parlare di sé come evento mediatico e sociale.
Interessante notare la natura delle due invasioni: nel film di Emmerich la rappresentazione del buio che copre i simboli della civiltà americana è chiaramente simbolica. Cupe ombre lunghe si stagliano sul profilo delle città e anticipano le astronavi aliene – dischi articolati e dalla struttura complessa – che senza tanti preliminari cominciano a distruggere tutto ciò che incontrano, fedeli al principio del “quando si spara si spara, non si parla”.
In “Ultimatum alla Terra“, invece, sfere luminose arrivano sul nostro pianeta e il primo effetto è quello di abbacinare i testimoni (molto più simile in questo caso alla tipologia di atterraggio spielberghiano). Non solo, ma le ombre degli alberi si ritraggono con un passaggio tenebre-luce tutt’altro che casuale, lasciando ad un chiarore salvifico una speranza di cambiamento.
Che il misticismo faccia parte integrante del film di Derrickson è cosa dimostrabile per diversi aspetti: Il regista stesso ha dichiarato: “L’elemento religioso era presente anche nella versione originale, io ho scelto di mantenerlo personalizzandolo. Mi spiego meglio… volevo ribadire che certe simbologie cristiane non sono appannaggio di una certa cultura di destra, come si crede erroneamente, e l’ho fatto mostrando le grandi contraddizioni dell’America: un paese che lotta per l’ambiente ma nel contempo è fortemente militarizzato.“.
E ribadisce che “negli Stati Uniti la religione ha finito per essere accomunata “solo” al pensiero di una destra che però non condivido“.
A conferma di ciò alcune scelte del racconto sono evidenti. Si pensi alla sequenza – sin troppo esplicita per la verità – in cui Klaatu cammina sulle acque di un laghetto, oppure alla resurrezione del protagonista, senza dimenticare che la fine del pianeta Terra è annunciato dall’invasione di un apocalittico sciame di locuste.
Tutto concorre alla formazione di una atmosfera para-religiosa che non sconfina mai nel conservatorismo cattolico di Mel Gibson né di una certa destra evangelica ultimamente sempre più invasive nella cultura degli States.
A riprova di questa sostanziale scelta di campo, molto vi è la scelta dell’attore protagonista. Affidare il ruolo del protagonista a Keaneu Reeaves alias Jhonny Mnemonic, Siddharta e soprattutto (non si offenda il Buddha) Neo di “Matrix” è una dichiarazione di intenti se ci riferiamo a un attore che, con la sua compassata espressività, incarna perfettamente la figura un Messia New Age e che, non a caso, si era dimostrato talmente interessato al copione di Ultimatum da voler egli stesso partecipare attivamente alla stesura della sceneggiatura, come lo stesso regista ha rivelato.
Alla domanda su quale fosse il suo rapporto con il soprannaturale Keanu Reeves risponde: “Credo certamente negli alieni, perché non penso che nel cosmo possiamo considerarci l’unica razza senziente, poi ho amici che dicono di avere avuto esperienze con gli ufo, anche se (ridendo) nella mia vita il momento in cui mi sono sentito più alieno è stato quando sono andato alla scuola superiore…“.
Dopo aver espresso le sue preferenze sul cinema di fantascienza, che la dice lunga sul suo buon gusto, citando capisaldi come “Guerre stellari“, “Blade Runner“, “2001: Odissea nello spazio” e “Solaris“, torna sull’argomento sottolineando ancora una volta che “il mondo occidentale è talmente intriso di cultura cristiana che è molto facile trovarla nel film“.
I ruoli che ricoprono I personaggi del film sono a tutto tondo e si rifanno ad un impianto collaudato della fantascienza classica. I politici sono mediamente ottusi, gli scienziati piuttosto ingenui ma positivi, i militari poco elastici (anche se alcuni sono dotati di buon senso) e fin qui niente di nuovo. Paradigmatica anche la figura del piccolo Jacob, catalizzatore di buoni sentimenti, figliastro della dottoressa Helen Benson (eroina interpretata da Jennifer Connely), che con la sua apertura di fiducia a Klaatu lo rende di fatto “capofamiglia” portandolo a ragionare da terrestre e riportandolo a più miti consigli nella discutibile decisione di sterminarci.
In quest’ottica il tema della famiglia è centrale: così come nel rifacimento de “La Guerra dei mondi” che aveva riproposto l’ennesima rivisitazione sulla famiglia di Steven Spielberg, vera ossessione per il regista di “ET” e di “Incontri ravvicinati“, fin dai tempi di “Sugarland’s Express“, le dinamiche familiari in crisi vengono ricomposte grazie ad un elemento esterno e mediatore.
Il padre del bambino, eroe di guerra, è una figura ancora tangibile in casa Benson: i rapporti madre-figlio sono continuamente messi in crisi dalla ingombrante assenza del genitore e il suo passato da soldato determina nel bambino l’equivoco che sia sufficiente combattere un nemico anche se solo “nel dubbio” che sia veramente pericoloso. Una posizione, quella di un ragazzino in età scolare, molto vicina alla pragmatica visione della “guerra preventiva” che ha dominato l’ultimo decennio della nostra storia.
Tra i due si instaura una dialettica che giova a entrambi: il piccolo riacquista il rispetto per la figura della madre grazie alla temporanea, carismatica presenza di un padre di fatto; Klaatu invece acquista l’umanità necessaria per rivedere le sue posizioni, invero piuttosto drastiche, nei confronti del genere umano.
A questo proposito Reeves stesso commenta: “nell’originale, all’inizio, Klaatu è un tipo affabile e umano e quando va via se ne va con un avvertimento, invece qui prima è duro e sinistro, poi prende decisioni umane verso la fine“.
Nel film di Wise si assiste ad una analoga presa di coscienza determinata dal rapporto tra alieno e ragazzino con quest’ultimo, espressione di buon senso e intelligenza, che accompagna il suo strano amico al cimitero di Arlington per fargli vedere la tomba del padre e l’inquadratura senza commento della celebre collina cimiteriale ricoperta di croci bianche è sufficiente a sottolineare l’assurdità di qualunque guerra.
Il tema “originale” del film però, pensiamo, stia nella ricerca costante dei protagonisti di “comunicare”. Comunicazione significa in questo caso ricerca di un linguaggio condiviso finalizzato a migliorarsi, a maturare, e in questa specifica peculiarità il film acquista spessore narrativo, anche se sotto traccia e mai direttamente.
Chiave di volta di questa poetica è la sequenza in cui il vecchio professor Barnhardt, un insolitamente cupo John Cleese, scienziato e Nobel incontra l’alieno. Luogo: un salotto classico, studio-biblioteca di un anziano, saggio, professore. Luce soffusa e una lavagna con una complessa formula lasciata a metà.
Klaatu, senza proferire verbo, la corregge e la completa. Il professore, sempre in silenzio, si illumina e termina la formula insieme all’enigmatico ospite (citazione del primo “Ultimatum“).
Un disco di musica classica di sottofondo accompagna il muto, ma costruttivo, dialogo.
Scienza e musica, dunque, vengono portati ad esempio di linguaggio universale, alternativo alla vuota discussione verbale, talvolta troppo intrisa di vuota retorica.
Ma non basta. In tutte le occasioni in cui Klaatu si trova a comunicare con militari, burocrati o anche solo con un semplice addetto alla macchina della verità (che nemmeno lo guarda negli occhi mentre gli pone domande in stile test Voigt-Kampff, adottato in “Blade Runner” per il riconoscimento degli androidi), il risultato è fallimentare.
Il segretario di stato ad esempio non prova nemmeno a “sintonizzarsi” con lui e il dialogo fra sordi non produce nulla di costruttivo. Non solo, ma la superiorità politica e di leadership degli Usa viene ribadita più volte negando la richiesta di una relazione “planetaria” di Klaatu al Palazzo di Vetro dell’Onu, non molto distante dal ruolo del presidente del film di Emmerich, vero e proprio eroe transnazionale cui affidarsi ciecamente. Volenti o… nolenti.
Molto interessante la scelta di far dialogare i due emissari alieni fra di loro in una lingua incomprensibile e volutamente estraniante, scelta che ricorda il vezzo neorealista di far parlare i tedeschi invasori in lingua madre, spesso ad alta voce, per ricordare il terrore che poteva produrre il suono di un linguaggio sconosciuto.
Il bambino invece, come spesso accade, e non solo nella fantascienza, è ancora privo di condizionamenti. Il registro comunicativo ancora naïf che adotta riesce a spiazzare Klaatu, e in ultima analisi a comprenderlo e a farsi capire meglio di tanti altri.
Il film risulta un prodotto tutto sommato accettabile ma con limiti del tutto evidenti. I 103 minuti di durata, per come la storia si sviluppa nella prima parte, non sono assolutamente sufficienti per chiarire alcuni nodi e portano ad un finale superficiale e al di sotto delle aspettative.
A coloro che ricordavano il discorso, per quanto retorico, del Klaatu originale, resterà un certo amaro in bocca nel non trovarne traccia in questa versione – aggiungeremmo – in maniera del tutto inspiegabile.
E dire che le sequenze iniziali promettevano ritmo e notevole capacità fascinativa: l’invasione aliena, il sequestro “di Stato” della dottoressa tradotta in una autostrada chiusa al traffico scortata da una colonna di inquietanti Suv neri sono girate con bravura e la fotografia e gli attori di indubbio valore contribuiscono a rendere credibile il racconto.
Peccato che, con il passare dei minuti, l’azione si inceppi in inutili loop narrativi che annoiano e confondono: il buco di sceneggiatura più evidente riguarda l’effettivo ruolo di Klaatu, sospeso tra un influente ambasciatore e un inutile galoppino intergalattico alle prese con un invasione già programmata che non può più fermare (ma allora che ci è venuto a fare sulla Terra?).
Non è chiara nemmeno la reale funzione di Gort, il robottone che atterra su Central Park e che nel corso del film viene catturato dai militari USA.
Nel romanzo originale di Harry Bates è questa struttura metallica a comandare Klaatu e nel film di Wise l’alieno Klaatu può solo parzialmente influire sui compiti ad esso assegnati; nel film di Derrickson il rapporto è ancora meno esplicitato e persino Keanu Reeves, dietro domanda specifica, sembra avere le idee un po’ confuse: “Il capo sono io (ride)! Però Gort è in un certo senso indipendente, è un po’ un’estensione di ciò che era nell’originale, perché attacca quando è attaccato…“.
A conti fatti la constatazione che la comprensione generale del remake funzioni soltanto se accompagnata dalla imprescindibile visione del primo film, risulta tanto spiacevole quanto necessaria.
I motivi dell’invasione, il rapporto tra Klaatu e Gort e i legami affettivi creati sulla Terra, oltre alla banale motivazione del perché si conceda ancora una possibilità al nostro pianeta (speriamo non per un terzo aut aut sugli schermi) non si chiariscono appieno senza le didascaliche spiegazioni – ridondanti e retoriche, ma assolutamente esplicative – pronunciate dal monocorde Michael Rennie quasi 60 anni fa!
La fantascienza come genere cinematografico, spiace dirlo, non compie nemmeno un passo dopo il nuovo “Ultimatum alla Terra“, ma tra “La Guerra dei mondi” e l’insulso “The Invasion” (con la peggior Nicole Kidman del decennio), il nostro guadagna probabilmente la palma del migliore, anche sul film della svuotata coppia Spielberg-Cruise: in questi tempi di magra ci sembra già un buon risultato.